Tricolori alle finestre e inno dai balconi: il coronavirus ci priva di tutto tranne che della nazione

Roma, 13 mar – C’è una strana voglia di nazione, in Italia. Proprio quando siamo condannati all’isolamento, cominciamo a percepire il senso della comunità. È infatti è un cambiamento culturale che si avverte in questi giorni, di pari passo con l’indurirsi delle nostre condizioni di vita. Quando il virus sembrava un problema tutto asiatico, un esotismo culturale, e ancora fino al momento in cui sembrava che la cosa potesse riguardare al massimo qualche anziano di un paio di sconosciute cittadine del nord Italia, il Covid-19 è stato letto secondo griglie ideologiche politicamente corrette: l’ennesima non notizia di cui dibattere sui social, come ha fatto notare Davide Di Stefano, l’ennesimo spunto per un editoriale qualunquista di Concita De Gregorio.

L’inno nazionale dai balconi

E anche, ovviamente, come l’ennesima porta sbattuta in faccia dalla realtà alle fisime sovraniste, perché “i virus se ne fregano dei nostri confini”. E tuttavia, man mano che il virus ha fatto irruzione nelle nostre vite quotidiane, sconvolgendole in termini mai sperimentati prima dal 1945, queste chiavi di lettura sono ben presto diventate inservibili. E, per quanto la fuffa sia ben lungi dall’essere scomparsa dai media e dai social, altre grammatiche simboliche si sono fatte largo. In diverse città, per esempio, i cittadini hanno pensato bene di superare l’isolamento coatto ricorrendo al conforto dell’inno nazionale, cantato a squarciagola dai balconi delle case. Le vie spettrali delle nostre città desertificate si sono quindi riempite di parole inneggianti alla fratellanza nazionale, all’unità, al sacrificio. In tante case, poi, sono spuntati dei tricolori alle finestre. 

L’elogio di Scurati per la “comunità di destino”

Ma non è tutto. Sorprendentemente, anche una certa intellighenzia globalista ha cominciato a fiutare l’aria. E così, se persino Beppe Severgnini ha potuto titolare un suo articolo sul Corriere “L’orgoglio da ritrovare: noi siamo italiani”, Antonio Scurati ha fatto di più. Sempre dalle colonne del Corriere della Sera, si è lanciato in un’analisi sociologica sulla generazione dei nati negli anni ’70, quelli che non hanno conosciuto guerre e terrorismo, quelli nati in una società benestante e industrializzata, ma che, in frangenti come questi, devono reimparare a stare al mondo. “Viandanti solitari sui sentieri della ricerca di una felicità individuale”, ha scritto, “non abbiamo conosciuto la politica come sentimento di appartenenza a un comune destino. Ebbene, dobbiamo assolutamente scoprirla ora. E dobbiamo imparare in fretta. Dobbiamo rimediare al lento apprendistato che non abbiamo avuto. Appartenere a una comunità di destino, a una comunità politica, significa anche elevarsi all’altezza di un sentimento tragico della vita, lottare per la vita, desiderare la vita sapendo di ‘galleggiare in un luogo incerto tra due estremi, tra l’essere e il nulla’”.

Comunità di destino? Sentimento tragico della vita? Ha avuto buon gioco, il liberale Guido Vitiello, sul Foglio, a parlare con fastidio di un “registro eroico da poeta-condottiero degli anni Venti o Trenta, stagione in cui dopotutto l’autore di M. è stato immerso per anni”. E quindi? Scurati e Severgnini alfieri della nuova rivoluzione conservatrice, reincarnazioni postmoderne di Marinetti e D’Annunzio? Non scherziamo. È però vero che, nei momenti di crisi, tutte le intelligenze e, ancora più, tutti le coscienze, capiscono che certi riferimenti non sono in grado di sostenere l’inerzia dello spirito del tempo. Non si affronta un’emergenza come questa al grido di “porti aperti come i nostri culi”, tanto per citare lo stil novo dell’antirazzismo militante. E quando tutti gli altri simboli ammuffiscono in fretta, la nazione resta sempre lì, un riferimento forte di cui alla fine hanno bisogno anche coloro che in tempi ordinari non lo sospetterebbero.

Tutto tornerà come prima, ma niente snobismo

Bisogna ovviamente guardare a tali fenomeni con la giusta distanza, né troppo da vicino, né troppo da lontano. Coloro che si sono messi a cantare l’inno di Mameli sul balcone non sono, probabilmente, soldati politici realmente “pronti alla morte” qualora l’Italia chiamasse. Sarebbe un errore immaginare che da questa crisi emerga un’autenticità compiutamente e spontaneamente realizzata. Ma questo, d’altro canto, non è un motivo per trincerarsi dietro uno spocchioso snobismo. Dopo l’emergenza, probabilmente tutto tornerà come prima: le masse non si autoeducano mai. Ma, una volta di più, sappiamo che questa società, con tutte le sue contraddizioni o con le sue miserie, e forse proprio per tutte le sue contraddizioni e le sue miserie, ha una disperata sete di senso. Serve solo chi sia capace di fornirglielo.

Adriano Scianca

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