Dopo il fascismo il nulla: storia tragicomica dei tagli alla sanità

Roma, 19 mar – Il recente tweet di Simone Di Stefano, oltre a rilanciare una verità storica, offre l’opportunità per riflettere sull’inversione di tendenza registrata nella storia della sanità italiana tra il “secolo breve” e il nostro. Che il tanto deprecato fascismo abbia “aperto centinaia di ospedali e centri di ricerca scientifica come ad esempio un certo “Lazzaro Spallanzani” è un dato inconfutabile. Nell’Italia liberale la gestione economica degli ospedali era basata sulla vendita dei servizi prestati – cure di qualità, degenze e ricoveri – che potevano essere “comprati” solo dai pazienti più abbienti: il servizio sanitario non era un ente “caritatevole”, ma un polo scientifico animato sì, da una classe medica di eccellenza ma accessibile, de facto, solo alle classi sociali più abbienti.
Poi arrivò la malaria che con la Legge Celli (1900) lo Stato combatté a colpi di chinino producendolo in prima persona a prezzo calmierato. Fu un successo. La riforma giolittiana (1913) introdusse allora il principio dell’assistenza farmaceutica alla popolazione trasformando le farmacie in veri e propri presidi sanitari, ma l’accesso ai servizi ospedalieri rimase precluso a chi non poteva permetterselo.

La svolta durante il fascismo

Fu proprio il Ventennio a irrompere – e positivamente – nella situazione di stallo ponendo una forte attenzione sia al contenimento di patologie endemiche (come la TBC) sia alla prevenzione delle malattie. Lo confermano i sanatori aperti per la diagnosi dei morbi infettivi – come lo “Spallanzani”, nato nel 1936 – e l’istituzione degli “Enti Mutualistici” su cui si poggiava il welfare corporativo che garantiva risarcimenti ai contribuenti e ai loro familiari in caso di malattie e/o infortuni. Che il sistema sanitario creato dal fascismo fosse “cosa buona e giusta” lo conferma il fatto che fu recepito senza modifiche dall’ordinamento dell’Italia repubblicana e continuò a funzionare fino al 1978. E qui, iniziano i problemi. Già dieci anni prima, con la legge n. 132, gli ospedali furono «affrancati dal loro tradizionale ancoraggio alla sfera dell’assistenza» e trasformati in «aziende di cura»: entrò allora nelle sale ospedaliere il virus della lottizzazione partitocratica di cui Luigi Zampa diede un magistrale ritratto con Il medico della mutua che, non a caso, Alberto Sordi interpreta nell’annus horribilis 1968.

Gli enti territoriali

Furono anni segnati «dal ritardo con cui si introduce il vaccino antipolio», dall’esplosione del reattore di Seveso «annunciata alla cittadinanza con una settimana di ritardo», della difficile lotta alla diffusione del colera a Napoli che lo Stato non riuscì a contrastare efficacemente a differenza di quanto fece “l’odiato Regime” con la malaria.
Dopo il default delle mutue nel 1978 nasce il Sistema Sanitario Nazionale organizzato non più in ospedali, ma in enti territoriali. Sorgono le Unità Sanitarie Locali (USL), create e gestite dai Comuni, punto di incontro del compromesso storico tra Dc e Pci (governo Andreotti). Una riforma nata vecchia, marchiata dai ritardi e dai compromessi di un sistema politico che da una parte decentrava la spesa e dall’altro conservava a carico dello Stato il prelievo fiscale delle entrate per finanziarla. Il tutto favorendo le logiche clientelari che avevano già fatto fallire il sistema mutualistico sacrificando sull’altare della partitocrazia una gestione etica e responsabile degli amministratori (nominati, appunto, dai partiti).

Ticket e privatizzazioni

Gli sperperi si sommano alle inefficienze, gli eccessi ai disservizi ed arriviamo all’istituzione del ticket in barba al principio costituzionale del “diritto alla salute”. Si inaugura la politica fondamentalista dei tagli alla sanità della Seconda Repubblica: i governi Amato e Ciampi trasformano le USL in ASL. Ciò sposta solo l’epicentro della mangiatoia dallo Stato alle Regioni attuando una finta privatizzazione effettuata a colpi di tagli lineari mascherati da modernizzazioni. E così il sistema sanitario oltre che a perdere efficienza perde anche omogeneità: le Regioni meno virtuose perdono terreno rispetto alle altre, nasce la Sanità di serie A e quella di serie B. Nel 1999 col governo D’Alema ci pensa Rosy Bindi (legge n. 299) le cui roboanti dichiarazioni riformistiche saranno contraddette da una riforma basata su una supposta superiorità tecnico-gestionale dei manager che, resi fulcro del sistema, rimangono di nomina delle giunte regionali. Altro che “Livelli Essenziali di Assistenza”, la riforma alza solo quelli di corruzione. Il secondo governo Amato, due anni dopo, con legge costituzionale (sic!) attua una riforma falsamente federalista che, invece, si colloca nel solco già tracciato della spesa affidata alle periferie di uno Stato sempre meno attivo nella gestione sanitaria.

La mannaia dei governi “tecnici”

Nessuno dei governi che ha messo mano alle riforme della sanità risulta eletto dagli italiani: sono tutti governi “tecnici” e l’ultimo della serie, quello Monti, non è da meno. Dai tagli lineari il tecnocrate passa all’austerity: le priorità finanziarie relegano definitivamente all’angolo le politiche sanitarie e la lotta allo spread viene considerata più importante di quella alle malattie. Cosa esattamente è stato sacrificato? Il personale, soprattutto. Su cosa non si è investito? Sul numero di medici. Pochissimi quelli assunti, molti quelli costretti ad emigrare ed eccellere all’estero. Oggi, secondo i sindacati dei medici, al sistema sanitario italiano mancano 46mila operatori, 8mila dei quali medici. Non va meglio per i posti letto, drammaticamente ridotti sia nel numero che nella durata delle degenze come evidenzia l’abuso del day surgery e del day hospital anche per interventi invasivi che hanno messo in pericolo la vita di molti di noi.

Gli ospedali chiusi

Da dove si sono presi i fondi per pagare i “competenti” manager? Dalla chiusura degli ospedali più piccoli e decentrati, unici presidi medici di pronto soccorso e di gestione emergenziale che hanno lasciato intere comunità in balìa del loro destino, all’“autoreclusione” del #restateacasa se state male, tanto le trattenute ve le abbiamo fatte per decenni nelle vostre buste paga o ingolfando di contributi obbligatori le vostre partite iva. Il risultato? Lo si rinviene nel triste corteo di mezzi dell’esercito che deporta le salme verso i forni crematori. Non è una scena di Schindler’s List, è quello che è accaduto a Bergamo nell’Italia che «quei criminali che hanno disarticolato per 40 anni lo Stato in nome del liberalismo» ci hanno regalato. Tanto per dirla con l’ultimo twitt di Di Stefano.

Roberto Bonuglia

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