“Ci hanno mandati a morire”. Il dossier che inchioda il governo

Cinquanta pagine di dossier. Una più cruda dell’altra. È la ricostruzione delle mancanze, degli errori, dell’informazione caotica in questa maledetta pandemia da coronavirus. Lo ha realizzato Robert Lingard, fondatore di un’agenzia di pubbliche relazioni a Londra, familiare di una delle vittime di Bergamo e membro del Comitato “Noi Denunceremo”.

Tanti gli interrogativi. L’Italia aveva un piano per la comunicazione del rischio? Ha gestito al meglio le notizie da dare in pasto ai media e ai cittadini? E, soprattutto, il governo è stato trasparente come prescritto dai manuali dell’Oms o ha tenuto irrazionalmente nascosti dati e “piani segreti” di vario tipo?

Partiamo da qui: secondo l’Oms, un piano pandemico nazionale deve includere anche un piano di comunicazione. Il motivo è di facile comprensione: la corretta informazione svolge un “ruolo di mitigazione fondamentale nel consentire alla popolazione di intraprendere comportamenti preventivi necessari alla salvaguardia della loro salute, ma anche delle conseguenze sociali ed economiche che potranno scaturire da una pandemia non propriamente contenuta”. Nel lontano 2005, Jong-wook Lee, ex direttore generale dell’Oms, diceva che “la comunicazione è tanto fondamentale per il contenimento di un focalaio quanto lo sono analisi di laboratorio o epidemiologiche”. Bene. Ma se per l’Oms un piano di comunicazione è così importante, si chiede Lingard, come è possibile che in Italia “a fine febbraio molte autorità istituzionali e la quasi totalità della popolazione italiana stessero ancora pensando che il coronavirus fosse una banale influenza?”. E come mai il premier e i suoi ministri in tivù tessevano le lodi di un Paese “prontissimo” a gestire l’emergenza, quando non lo era?

Secondo Lingard a gennaio l’Italia non disponeva “di un piano di comunicazione del rischio”, proprio come era sprovvista – ormai è noto – di un piano pandemico aggiornato. Per dimostrarlo, Lingard mette a confronto la strategia comunicativa svizzera con quella nostrana. Mentre il “Piano pandemico” dell’Italia dedica alla comunicazione del rischio solo mezza paginetta, in quello elvetico si trovano otto succose pagine ben dettagliate. Le indicazioni vanno dalla creazione di un Comitato ristretto che gestisca le informazioni fino alle strategie comunicative in base alla fase pandemica, passando ovviamente per la lotta alla disinformazione e lo sviluppo dei canali alternativi ai media tradizionali, come i social network. Direte: logico e razionale. Perché allora l’Italia non lo aveva così dettagliato? E perché il governo ha affidato le conferenze stampa oggi a Borrelli, domani all’Iss, dopodomani a Arcuri? E le dirette del premier Conte a notte inoltrata, con ore di ritardo sull’annunciio, si possono configurare come scelte comunicative azzeccate?

E pensare che l’Oms sul tema aveva realizzato anche delle linee guida. Il tutto ben prima dell’arrivo di Sars-CoV-2. “Già nel 2005 – scrive Lingard – l’OMS pubblica un vero e proprio manuale intitolato Effective Media Communication During Public Health Emergencies, e focalizzato sulla gestione mass mediatica della comunicazione in situazioni di emergenza sanitaria”. Un documento dettagliato, dove tra le altre cose “vengono addirittura elencate le 77 domande chieste più frequentemente dai giornalisti durante una emergenza”. Nel 2017, peraltro, l’OMS aggiorna le linee guida per includere nei modelli anche i social media. L’Italia l’ha fatto? “Anche in questo caso la risposta è no”, scrive Lingard. E infatti sono passati mesi prima che il governo si decidesse a coinvolgere i vari Ferragnez.

Ma a meritare particolare attenzione è soprattutto il capitolo “trasparenza”. Checché ne dicano gli esperti del Cts, che hanno più volte chiesto riservatezza sul “piano segreto” realizzato in seno al Comitato, le linee guida dell’Oms prescrivono la massima limpidezza. Certo sono ammesse deroghe, ma solo nel caso in cui la diffusione di informazioni durante un’epidemia possa “compromettere la sicurezza nazionale”, violi la privacy o possa portare alla stigmatizzazione di “specifici gruppi etnici o regioni geografiche”. Non pubblicare il “piano segreto” anti Covid, dove erano previsti migliaia di contagi e di morti, rientra in queste casistiche? Non secondo Lingard, che aggiunge: “Se gli scenari avevano un potenziale così catastrofico, erano già disponibili il 20 di gennaio ed era bene lavorare per contenere il contagio. Come mai allora la prima prima guida di carattere preventivo viene pubblicata in quattro video sul sito del ministero della Salute per la prima volta solo il 20 di febbraio?”.

Non è un caso, dunque, se il Global Health Security Index, che valuta la sicurezza sanitaria e le capacità di risposta di 195 Paesi, sulla comunicazione del rischio mette l’Italia nella parte bassa della classifica. Con un punteggio di 25/100, il Belpaese si colloca al 76esimo posto. “Le prove disponibili – scrive il GHS Index – non indicano che l’Italia abbia un piano nazionale di risposta alle emergenze sanitarie autonome, incorporato in un unico documento programmatico. Il sistema di protezione civile italiano ha una politica di comunicazione del rischio ben sviluppata, ma è focalizzato sulle calamità naturali”. Secondo Lingard, proprio la mancata trasparenza è alla base dei vari aperitivi di Zingaretti, delle cene di Gori, delle dichiarazioni di Salvini e dei video #Milanononsiferma o #Bergamoisrunning. Se il “piano segreto” fosse stato reso noto o condiviso almeno con le Regioni, forse il Paese si sarebbe risparmiato quei (pericolosi) balletti. “I leader delle opposizioni erano informati della rincorsa del Cts alla costruzione di un piano operativo per contrastare l’epidemia? – si chiede Lingard – E i sindaci?”. Evidentemente no, altrimenti avrebbero parlato all’unisono. “Se non sono stati informati, per quale motivo non sono stati messi al corrente della gravità della situazione? Perché si è omesso il tentativo di coinvolgere i rappresentati di tutto il mondo istituzionale in tutta trasparenza allo scopo di fare in modo che la popolazione adottasse comportamenti preventivi?”.

Alle tante domande per ora mancano le risposte. Come aleggiano non pochi dubbi su quel mese a cavallo tra fine gennaio e il caso di Codogno. Il 30 gennaio, infatti, Speranza si presenta alla Camera per una informativa sul virus “cinese” e si dimostra consapevole dei rischi, tanto da assicurare che Sars-CoV-2, “pur essendo classificato di tipo B in quanto a pericolosità”, verrà trattato come se fosse la peste. Perché allora ci siamo ritrovati schiantati a terra? Per Lingard è colpa del “mese di ritardo sull’attivazione dell’intera macchina organizzativa”. “Chi ha scelto di non comunicare in maniera chiara e trasparente la gravità della situazione non poteva certo dire di non sapere. Era, dunque, molto probabilmente mosso da ben altre intenzioni. Quali potevano essere queste intenzioni? Non disattendere le pressioni provenienti da una parte del mondo produttivo? Non mettere alla luce l’inadeguatezza della pianificazione italiana in tema di pandemie?”. Tutti quesiti che fanno dire a Lingard, consapevole della durezza di quanto afferma, che bergamaschi e bresciani durante la prima ondata “sono stati mandati a morire”. E che forse si poteva fare qualcosa in più per salvare decine di vite. Covid, la rivelazione sull’ospedale di Alzano: “Sembrava dovessimo scappare”.Pubblica sul tuo sito

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