Antonio Socci letale: “La sinistra in piazza? Una sfilata di menagramo che odiano l’Italia”

E ora c’ è chi tifa spread? È del tutto legittimo, in democrazia, criticare la manovra economica del governo, ma c’ è un un partito trasversale (forte nel Palazzo e debole nel Paese) che ha un’ irresistibile e inaccettabile tentazione: appunto tifare spread. O comunque “tifare Mercati” o Unione Europea o Macron o Merkel o qualunque altra entità che possa creare problemi al governo. E magari metterlo in crisi e abbatterlo, replicando quello che accadde nel 2011 al governo Berlusconi.

Non voglio affatto dire che tutti coloro che avversano questo governo “tifino spread” o confidino nello straniero. Anzi, spero sinceramente che solo una piccola minoranza cada in questo errore. Ma temo che la tentazione sia di molti. Di fatto vuol dire tifare contro l’ Italia, anche se gli interessati non lo confesseranno mai neppure a se stessi. Anzi, diranno di voler difendere l’ Italia dal populismo gialloverde. E sosterranno di sentirsi chiamati a far argine contro gli irresponsabili.
Con tutte queste ragioni di facciata la tentazione di sperare nell’ impennata dello spread già oggi, o nella bocciatura di Bruxelles domani o magari in altri “veti” è formidabile per chi non vuole fare revisioni autocritiche sulle fallimentari politiche “germaniche” fin qui seguite. In mancanza di consenso nel Paese questi oppositori prendono la solita vecchia scorciatoia che è stata la tragedia dell’ Italia: chiamare lo straniero in proprio soccorso.

Questa è stata, per secoli, la causa di tutte le sciagure italiane: avere classi dirigenti (o classi dominanti) divise e faziose che – nello sbranarsi a vicenda – hanno ceduto alla tentazione di chiamare lo straniero in proprio aiuto. Straniero che poi si rivela puntualmente un invasore che provoca la devastazione del Paese. Gli stranieri infatti non se lo fanno dire due volte, perché l’ Italia era e resta sempre un boccone ghiottissimo.

LA STORIA SI RIPETE – Accadde nel momento cruciale della nostra storia, il Cinquecento, quando l’ Italia rinascimentale era di fatto la vera capitale culturale e civile d’ Europa (oltre ad essere la capitale religiosa del mondo). Nelle corti europee i futuri regnanti imparavano l’ italiano come oggi s’ impara l’ inglese. E l’ Italia, molto ricca, era anche una potenza economica e finanziaria. Purtroppo però era politicamente divisa in molti stati ostili fra di loro e, al loro interno, in tante fazioni: quelle classi dirigenti si facevano guerre feroci cedendo alla tentazione di chiamare in aiuto le varie potenze d’ oltralpe. Le quali spesso anticipavano perfino la chiamata e non trovavano mai i diversi stati italiani a far fronte comune contro l’ invasore. Così l’ Italia fu devastata e decadde.

Lo ha raccontato lo storico ed economista ginevrino Sismondo de Sismondi nella sua celebre opera Storia delle repubbliche italiane. È una pagina rivelatrice che – curiosamente – Angelo Panebianco ha recentemente evocato in chiave europeista (così capovolgendone però il significato, almeno a mio avviso). Scrive il Sismondi: «Alla fine del secolo XV i signori delle nazioni francese, tedesca e spagnola furono tentati dall’ opulenza meravigliosa dell’ Italia, dove il saccheggio di una sola città prometteva loro a volte più ricchezze di quante ne potessero strappare a milioni di sudditi. Con i più vani pretesti essi invasero l’ Italia che, per quaranta anni di guerra, fu di volta in volta devastata da tutti i popoli che poterono penetrarvi. Le esazioni di questi nuovi barbari fecero infine scomparire l’ opulenza che li aveva tentati».

Oggi l’ Italia continua ad ingolosire tanti potentati stranieri e tanti poteri finanziari. Certo, gli stati d’ Europa non si fanno più guerre con gli eserciti, ma fanno guerre economiche, magari coperte dal nobile vessillo dell’ ideale europeista sotto cui i più forti impongono i loro interessi e il loro nazionalismo. E c’ è da chiedersi se non è stata un’ analoga spoliazione ciò che ha subito il nostro Paese negli ultimi decenni, da quando abbiamo ceduto la nostra sovranità monetaria, economica e politica. Del resto l’ Italia ancora continua ad essere terra di conquista, perché resta comunque uno straordinario scrigno su cui tanti hanno gli occhi puntati: basti pensare al nostro grande risparmio privato o alla nostra struttura manifatturiera che resta la seconda d’ Europa, per non dire del nostro incomparabile patrimonio artistico e monumentale.

Per questo bisognerebbe smetterla con una politica che non mette al primo posto l’ interesse nazionale.
Bisognerebbe evitare quelle accanite lotte di fazione che poi impediscono di far fronte comune in difesa del Paese o addirittura inducono a confidare nell’ intervento straniero, con tutte le conseguenze che ciò comporta.

LA LEZIONE DI MACHIAVELLI – Consiglierei – per tornare alla storia – di ricordarsi del più grande pensatore politico italiano, Niccolò Machiavelli, che – lungi dall’ essere un cinico teorico del potere per il potere – fu un ardente patriota, oltreché grande umanista. Infatti nel suo celebre trattato Il Principe del 1513, affrontò la drammatica situazione dell’ Italia prospettando un possibile riscatto.

Il capitolo XXVI è intitolato, “Esortazione a pigliare la Italia e liberarla dalle mani de’ barbari”, un titolo che oggi attirerebbe su di lui gli strali dei giornali e l’ accusa di sovranismo o nazionalismo. In quelle pagine drammatiche egli lamenta la condizione dell’ Italia «schiava», «serva» e «dispersa», un’ Italia «senza capo, senza ordine, battuta, spogliata, lacera, corsa» che ha «sopportato d’ ogni sorta ruina». Per questo Machiavelli invocava l’ arrivo di «un Principe nuovo» (pensava a Lorenzo de’ Medici) che la liberasse dagli stranieri che se la contendevano e affermava che un tale principe avrebbe avuto con sé tutti gli italiani: «Quale Italiano gli negherebbe l’ ossequio? A ognuno puzza questo barbaro dominio».

Oggi con queste parole Machiavelli si prenderebbe pure l’ accusa di fascismo, perché – direbbero – invoca «l’ uomo forte». Ma noi abbiamo imparato da Antonio Gramsci a leggere intelligentemente la figura del «principe» che può essere rappresentato – in tempi moderni e democratici – da una realtà politica (non necessariamente un solo partito, ma anche una classe dirigente trasversale) che rappresenti davvero il Paese e che realizzi l’ aspirazione degli italiani al riscatto, alla rinascita economica, civile e politica della nostra nazione.

 

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