“Non esco da 43 anni”. L’incredibile storia di Rita. Una vita a metà: “Ho partorito, amato e sofferto senza mai uscire da quelle mura”. Una vicenda atroce, venuta a galla soltanto adesso

Una storia assurda che ci arriva dall’altra metà del mondo. Siamo in Brasile, nazione in cui, tra gli anni Venti e gli anni Ottanta del Novecento era pratica diffusa isolare e mettere in quarantena i possibili casi di malattia di Hansen, comunemente nota come lebbra. A questo scopo, il governo aveva costruito ‘colonie’ ospedaliere, i leprosários [lebbrosari], in cui i pazienti erano separati dalle loro famiglie, dagli amici e anche dai figli. I pochi che ne uscivano finivano spesso esclusi dalla società, segnati dallo stigma della malattia.

Questo atteggiamento ha fatto sì che molti pazienti continuassero a vivere nelle strutture anche dopo la fine dell’isolamento coatto nel 1986. È in questo contesto che Rita de Cássia, oggi di 63 anni, racconta la sua incredibile storia. La signora Rita, come è nota all’Hospital Colônia do Curupaiti, è stata ospedalizzata in questo gigantesco complesso nel quartiere Jacarepaguá di Rio de Janeiro quando aveva 20 anni. Dopo aver vissuto qui per 43 anni, ha deciso di raccontare alla scrittrice Marie Declercq la sua storia.

“La mia storia alla Colônia do Curupaiti è cominciata quando ero incinta di mia figlia. Durante un controllo di routine all’Hospital do Servidor [di Rio de Janeiro], la dottoressa ha notato una strana cosa sulla pelle e mi ha chiesto di fermarmi in ospedale per un esame. Quando sono arrivati i risultati, il suo atteggiamento nei miei confronti è cambiato completamente. Si è allontanata, e mi ha consegnato una lettera in cui si diceva che ero ‘bandita’. Appena ho lasciato la stanza, ho sentito che diceva all’infermiera che doveva far sparire tutto quello che avevo usato, o con cui avevo avuto contatti”.

E continua: “Quando sono entrata nell’enorme complesso di Curupaiti, ero una donna bellissima. Ci sono entrata senza sapere cosa mi stesse succedendo—non avevo avuto risposte dalla dottoressa, ero lì perché mi ci avevano mandato. Una ragazza in camice bianco mi ha chiesto cosa facessi lì. Piangevo. Ero terrorizzata davanti a quel mondo triste. Mi ha preso per il braccio e sospinto fuori dall’ala maschile. Dopotutto, non era il posto per me. È successo tutto molto in fretta. Il medico mi ha parlato, mi hanno spostato in un’altra ala e mi hanno fatto chiamare la mia famiglia. Anche allora, nessuno mi ha detto la diagnosi. Continuavo a brancolare nel buio. Una settimana dopo la confusione, l’ansia e l’ammissione alla clinica, sono entrata in travaglio”.

“Piangendo per il dolore- continua – ho chiesto di poter prendere in braccio mia figlia. Non me l’hanno permesso. Me l’hanno portata via, mi hanno solo detto che era nata sanissima, e che era proprio per quello che me la tenevano lontana. Non mi hanno nemmeno spiegato perché. Ho potuto solo guardare il suo viso da dieci metri di distanza perché un’infermiera era dispiaciuta per me, e me l’ha mostrata. È stato allora che ho scoperto che avevo la lebbra”.

Dopo la nascita della figlia, Rita è riuscita in qualche modo (fuggendo e tornando dopo poche ore) a far visita alla figlia (tutto in massimo segreto) a vederla crescere, innamorarsi e infine partorire dopo tanti anni. Ora è nonna, la sua malattia è praticamente svanita e si è costruita una bellissima casa nella stessa struttura che l’ha costretta a restare fuori dal mondo per 40 anni. Adesso Rita è una delle figure amministrative del complesso, chiuso ufficialmente nel 1986 come lebbrasario e adattato come casa per i più bisognosi, è nonna e finalmente ha potuto tenere suo nipote tra le braccia, cosa che non ha potuto mai fare con sua figlia.

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