Inchiesta mascherine: Arcuri ora trema “Spreco miliardario, prodotti scadenti”

La gestione dell’emergenza del commissario Domenico Arcuri fa acqua da tutte le parti. Dopo l’indagine della Corte dei Conti sulle siringhe inadatte per i vaccini, ora l’inchiesta sulle mascherine cinesi rischia di travolgere l’intera macchina di gestione della crisi pandemica.

Lo scenario si apre a marzo dello scorso anno, quando molti imprenditori italiani si offrono di fare da mediatori con le aziende produttrici cinesi per portare le mascherine in Italia. Mentre tutti gli altri Paesi si rivolgono al governo cinese, che garantisce qualità e affidabilità dei prodotti, l’Italia gestisce tutte le richieste, su ordine del ministro degli Esteri Luigi Di Maio, attraverso l’ambasciata di Pechino. I dispositivi di protezione arrivano tutti da quel «triangolo delle Bermuda» compreso tra Shenzhen e Hong Kong, da cui si riforniscono anche imprese italiane. Viene intanto creato un gruppo di gestione dei voli. In realtà il Kc-767 dell’Aeronautica militare per il primo volo imbarca pochissimi pezzi perché deve effettuare il rientro velocemente, con un unico scalo e rifornimento, proprio su ordine del ministro Di Maio. Un po’ come la storia dei vaccini, arrivati in quantità ridicole su un furgoncino della Pfitzer solo per ragioni di palcoscenico mediatico.

I voli militari sono pochi. Subito dopo il trasporto viene affidato alla società Neos, che fa 94 viaggi, secondo i dati da loro forniti, con i vettori 787, che hanno una capacità di 200 metri cubi e che vince la gara per il prezzo più competitivo, per poi passare ai 777 di Alitalia, che hanno una portata di 120 metri cubi, a un costo maggiore. Ma il punto chiave è il criterio di commercializzazione delle mascherine. Il 18 marzo, con il decreto Cura Italia, è l’Inail l’ente che si occupa di approvare o meno i vari tipi di mascherina. Senza la validazione nessuno può venderle. A raccontarlo è Giovanni Conforti, proprietario della Yakkyo srl, che da anni lavora con la Cina e che presenta sei tipi di mascherine. Inspiegabilmente, alcuni dei modelli sottoposti a Inail, identici a quelli portati da altre aziende, non vengono approvati. Viene dato l’ok a due modelli dopo il riesame e, chiarisce, «successivamente abbiamo presentato due ricorsi al Tar per il diniego e un ricorso per risarcimento danni».

Confrontando i tipi di mascherina presentati da altre realtà e subito approvati con quelli poi piazzati attraverso Invitalia, si scopre che la maggior parte di essi ha usufruito di quel canale. E qualche dubbio sorge. Il viareggino Pier Luigi Stefani spiega di essersi speso per piazzare mascherine provenienti dalla Corea, Paese in cui ha lavorato per oltre 10 anni. «Ho scritto a numerosi soggetti – dice – compresi Estar Toscana, Assolombarda, Regione Campania. Ma ogni volta chiedevano un sacco di certificazioni. Impossibile piazzare le mascherine. Io lo facevo perché vedevo gente morire, medici e infermieri disperati, il mio scopo non era guadagnare. Il tipo di mascherina che proponevo era sicura e acquistabile a 70 centesimi a pezzo. Attraverso il sistema Arcuri ne sono state acquistate anche a 6 euro. Hanno buttato via oltre un miliardo di euro che sarebbe potuto servire ad aiutare le aziende». Anche il senatore Massimo Mallegni (Forza Italia), scrisse al governo per informare della disponibilità di mascherine. Ma mai nessuno rispose. Gli scambi di mail che ancora Stefani conserva parlano chiaro: qualcosa non tornava e continua a non tornare. Ma le Procure dovranno indagare, perché i morti per Covid sono stati moltissimi e sulla pelle della gente non si può scherzare.

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