Paolo Mieli sulla crisi: “Serve un governo forte. La cosa migliore? Subito al voto, con l’ok del Cts”

Giornalista, storico e politologo di lungo corso, Paolo Mieli è forse l’unico intellettuale di sinistra che invoca elezioni anticipate sin dall’estate ribaltonista del 2019. A maggior ragione oggi: «Sarebbe giusto rilegittimare il Parlamento dopo il taglio dei seggi per via referendaria, per eleggere tra un anno il successore di Sergio Mattarella; e servirebbe un governo forte e autorevole per affrontare la pandemia e i suoi effetti economici e sociali».

L’impressione è che le cose andranno diversamente: un Conte ter con Matteo Renzi e qualche centrista di complemento… 

«Vediamo che succede intorno al tavolo sui punti programmatici, ma comunque sì: pare che un accordo intorno alla vecchia maggioranza si possa rifare, anche se dubito possa reggere a lungo. Certo il presidente del Consiglio dimissionario resterebbe al proprio posto, e non è poco per lui, ma la cosa che più preoccupa è l’indebolimento del quadro generale: a sei mesi dal semestre bianco, non possiamo escludere un’altra crisi mentre siamo sotto gli occhi del mondo, soprattutto dell’Europa che guarderebbe con preoccupazione a un governo instabile».

Meglio avere un vincitore e un vinto?

«Dopo il ritiro della delegazione di Italia Viva, tutto sembrava chiaro: Renzi era uscito dalla maggioranza, i suoi ex alleati l’hanno ricoperto di contumelie e insinuazioni e poi hanno giocato la carta dei cosiddetti responsabili o volenterosi o costruttori o europeisti (una quantità di sigle inenarrabili); ma invece di osare la conta in Parlamento sulla relazione del Guardasigilli, sia pure con una maggioranza relativa, hanno preferito tornare indietro».

Il rischio per Conte era troppo alto.

«La storia insegna che in certi momenti un leader può uscirne come uno statista sia se vince sia se perde, ma non se rinuncia a fare chiarezza. In questa crisi la sinistra ha mostrato di non aver imparato dalla lezione di Romano Prodi nella legislatura di metà anni Novanta. Si era agli inizi del 1996 e il governo Dini, nato un anno prima dall’implosione della maggioranza berlusconiana, entrò in crisi; i sondaggi davano il centrodestra in vantaggio, la sinistra tremò e fu messo in piedi un tentativo di governo con Antonio Maccanico pur di tenere Berlusconi fuori dai giochi. A quel punto fu la determinazione di Prodi a sbloccare lo stallo: l’ex presidente dell’Iri convinse lo schieramento di centrosinistra dicendo: o si va a elezioni adesso, oppure non contate su di me. Si fece come voleva lui, e lui ha vinto».

Altri tempi e altri leader.

«Ogni crisi è diversa dalle altre, tuttavia penso che Conte avrebbe dovuto seguire l’esempio di Prodi. Magari avrebbe perso, ma sull’onda della sconfitta si poteva dare prospettiva strategica a quel patto tra Pd e Cinque stelle che già nel 2019 doveva essere legittimato da un voto. Tornando a oggi: le possibilità di prevalere sulle destre esistono, ma un conto è tornare al governo per una vittoria elettorale, altro è restare al potere grazie al senatore Ciampolillo. Ammesso che Ciampolillo sia ancora in maggioranza».

L’arrocco dei giallorossi dipende dalla paura della destra a trazione sovranista?

«Quando le motivazioni per non votare sono troppe, non convincono mai. La pandemia il Recovery plan l’Europa che ci guarda Soprattutto c’è il timore che vincano le destre. E quest’ ultima è la vera motivazione. La sinistra italiana ha sempre paura che vinca l’avversario, e allora l’avversario diventa un nemico da esorcizzare fino alla scadenza della legislatura, salvo poi perdere le elezioni. Perché alla fine si deve pur votare».

Stavolta c’è di mezzo l’elezione del capo dello Stato.

«Il che contribuisce a moltiplicare i giochi e rendere confusa la situazione, perché alcuni leader di maggioranza sperano di agguantare il Quirinale in mezzo al grande caos. È già successo in passato ma allora c’erano grandi leader, adesso non c’è nessuno che sia capace di condurre in porto un’elezione ordinata del capo dello Stato. A meno che non si scelga la rielezione di Mattarella».

Il centrodestra potrebbe far suo il lodo Giorgetti: rieleggere pro tempore Mattarella, andare al voto e poi proporre per il Colle una figura di sintesi e pacificazione. Magari un nome come Luciano Violante…

«Me la terrei come extrema ratio. Per le condizioni in cui versa il centrodestra, dove peraltro l’unica volontà genuina di votare è quella di Giorgia Meloni, ci sono poche opportunità. E poi mi sembra complicato che ora i 5stelle e il Pd possano aderire a un simile schema. Ciò detto, forse il problema nemmeno si pone: vincerà l’idea che, caduto Conte, si entrerebbe in una spaventosa terra di nessuno».

E se invece Conte non ce la facesse?

«Vedrei bene un governo con il mandato di portare il paese al voto entro giugno, ferma restando la preventiva autorizzazione del Comitato tecnico-scientifico che dovrà comunque essere data sulle elezioni comunali. Se potranno votare Roma, Napoli, Torino e Milano, potrà votare anche il resto del Paese».

Un governo ponte preelettorale, ma affidato a chi?

«Mi torna in mente l’incarico ricevuto da Carlo Cottarelli a inizio legislatura. Eravamo a maggio, non si poteva rivotare in estate, Cottarelli ha ricevuto un incarico per andare a elezioni prima possibile. Oggi, a maggior ragione, sarebbe meglio votare prima possibile per eleggere il successore di Mattarella con un Parlamento rilegittimato dal consenso popolare».

Non c’è il rischio di un vuoto di potere nel pieno della pandemia?

«Al contrario! Bisogna ribaltare lo schema: sarebbe terribile affidare l’Italia per altri due anni a un Parlamento che fatica a fare qualsiasi cosa. Le elezioni sono una rigenerazione delle istituzioni e in momenti drammatici come questo, invece di nascondersi dietro motivazioni pretestuose, si deve poter prevedere uno scioglimento anticipato delle Camere. È l’eccezione che conferma la regola costituzionale dei cinque anni di legislatura vigente in condizioni di normalità».

L’Italia non è un Paese normale?

«Sono reduce lettura di due libri inquietanti: “La notte delle ninfee” di Luca Ricolfi (Nave di Teseo) in cui l’autore esamina tutti i limiti della battaglia contro la pandemia, e “Il sistema” (Rizzoli) di Alessandro Sallusti con Luca Palamara, in cui vengono svelate le condizioni della magistratura italiana. Il nostro Paese ha dei punti di fragilità molto preoccupanti. In questi casi appellarsi al corpo elettorale può essere indispensabile. Non mi faccio alcuna illusione, sia chiaro, ma poi non ci stupiamo se la gente per strada fa la faccia schifata quando parla della classe politica».

E la carta Mario Draghi?

«Conosco benissimo Draghi, abbiamo un rapporto di amicizia da tantissimi anni, posso dire a ragion veduta che non è ansioso di prendere il comando della Nazione. Conosco meno bene Marta Cartabia ma lo stesso discorso si può fare per lei. Non c’è un esercito di riserve della Repubblica che anelino a sostituirsi a Conte. Il fatto è che con questo Parlamento ogni soluzione istituzionale rischia di diventare un gioco di carte come lo sputo nell’oceano (una variante del poker, ndr)».

Un ministro da confermare in un eventuale Conte ter o in un governo di larghe intese?

«Roberto Speranza. Non perché non abbia fatto i suoi errori ma perché è una persona perbene alle prese con un’emergenza planetaria e adesso non possiamo permetterci un “cambio di generale” al dicastero della Salute. Lui andrà valutato alla fine».

Siamo passati dai Dpcm scritti al galoppo da Conte al passo cadenzato delle liturgie costituzionali in tempi di crisi. Una nemesi per la vanità dell’avvocato pugliese?

«Se il più grande giurista italiano, un moderato come Sabino Cassese, ha battagliato a viso aperto contro la persistenza dei Dpcm e lo stravolgimento costituzionale dell’ultimo anno di legislatura, qualcosa su cui riflettere evidentemente c’è. Cassese non è uno in cerca di pennacchi, è un uomo gentile dalla vasta cultura giuridica, e ha ragione: i Dpcm andavano usati soprattutto a inizio pandemia, ma poi se n’è fatto un uso allegro. A febbraio dell’anno scorso eravamo i più esposti sul fronte pandemico, dovevamo tentare ogni possibilità ed è stato giusto imporre il lockdown. Ma dall’autunno in poi, quando l’Italia era messa meglio di altri Stati europei, è iniziata una rincorsa confusa a colpi di Dpcm settimanali dei quali non si riusciva a verificare l’effetto. Risultato: a dicembre ci siamo trovati nelle stesse condizioni critiche dei nostri vicini, ed è risultato chiaro che i Dpcm erano diventati una scelta ideologica più che uno strumento fondato sulle evidenze scientifiche. Nel frattempo si perdeva tempo prezioso per fronteggiare la crisi economica: il Recovery plan doveva essere pronto per settembre-ottobre e invece non è stato ancora completato. Non è un caso che questa crisi politica sia nata con il passaggio dall’autunno all’inverno. Lo dico con dispiacere: quando si è in uno stato di crisi pandemica come questa, un intellettuale come me deve stare dalla parte del governo, però non posso non notare certi buchi neri».

Chi esce più ammaccato da questa crisi politica, oltre al premier?

«Il Pd e i Cinque stelle pagano il prezzo dell’inerzia e della rinuncia a rendere strategica la loro alleanza. Tra l’agosto del 2019 e l’inizio della pandemia hanno avuto un semestre per scrivere una legge elettorale e una riforma della Giustizia che riequilibrassero il taglio dei parlamentari e l’abolizione della prescrizione. Non l’hanno fatto. E quando sono andati insieme al voto, come in Umbria e in Liguria, l’hanno fatto senza uno spirito guida comune, finendo travolti dal centrodestra. E sto parlando della mia parte politica, non senza soffrirne».

Al netto di eventuali colpi di scena, Renzi ha bluffato bene?

«Ha confermato le sue doti e li ha fatti ballare tutti, anche se il posto di Conte mi pare che non sia mai stato così in pericolo. Il limite evidente di Renzi sta nel non saper fare squadra in modo ampio: il suo gruppo parlamentare ha tenuto, ma lui non ha più una costellazione di intellettuali, giornalisti e opinionisti a sorreggerlo. Lo si è notato in occasione dell’incauto viaggio in Arabia Saudita: davanti a un compiaciuto Mohammed bin Salman, un membro della commissione Difesa non può permettersi nemmeno per scherzo certe battute sul costo del lavoro. Ciò detto, e pur sottolineando le mie parole di indignazione per i casi Regeni e Khashoggi, suggerisco di tenere distinte le battaglie di civiltà dai rapporti diplomatici con Stati strategici come Egitto e Arabia».

Il centrodestra avrebbe potuto giocarsela meglio? Magari triangolando proprio con Renzi…

«Non mi sembra credibile l’ipotesi che l’ex segretario del Pd finisca per guidare un partito di centro alleato con le destre. Dalle parti del centro riconosco semmai la linearità della sola Emma Bonino, e qui mi fermo. Quanto al centrodestra, ne esce ammaccato perché è giunto impreparato all’appuntamento. Ha mostrato una compattezza di superficie, dietro la quale manca una visione progettuale. Si nota l’assenza di un leader riconosciuto come il Berlusconi di venti anni fa».

L’immagine internazionale dell’Italia si è ulteriormente appannata?

«Si è infragilita. Un anno fa l’Europa ci mostrava generosità, con la Germania al nostro fianco nella battaglia vinta contro i paesi frugali. Si avvertiva sempre una riserva mentale, ma era aumentato il rispetto nei nostri confronti. Adesso questo rispetto sembra dissipato e possiamo riguadagnarcelo soltanto presentandoci con un volto rinnovato e rafforzato. Servono personalità capaci di parlare anche al resto del mondo».

È un consiglio per il Conte ter?

«È un’evidenza fattuale: non basta dare due ministeri ai volenterosi e un sottosegretariato all’ultimo venuto. E poi ricordiamoci che per le elezioni c’è tempo fino a giugno, il prossimo governo può cadere fino a marzo-aprile, rivelandosi una finta soluzione».

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