Il governo ci vuole nullafacenti: la folle idea per non farci lavorare

La signora che ho davanti è una storica imprenditrice di Milano. Novant’anni portati come una camicia ben tagliata e occhi che tante ventenni di oggi possono solo invidiare.

“Sono tornata dal mare per lavorare”, racconta. “Non ne posso più del virus, bisogna tornare a lavorare. La gente mi sembra impazzita, non vuole più fare nulla…”. Annuisco, ripenso alle vie deserte di Milano nei mesi scorsi e penso che abbia ragione. Mi piacerebbe telefonarle ora per chiederle cosa pensa dell’ultima idiozia del governo, che il Corriere riassume così: “Covid: gli asintomatici positivi al tampone non possono lavorare, anche da casa“. “A disciplinare la questione – scrive il quotidiano di via Solferino – sono i decreti Cura Italia e Rilancio, poi convertiti in leggi, oltre al ‘messaggio’ Inps 2584 del 24 giugno e al dpcm 7 agosto del 2020”. Ma non solo: “Il decreto Agosto ha stabilito che le persone di ritorno da vacanze in zone a rischio debbano stare in isolamento in attesa del tampone. Bene, anche questo isolamento è equiparato alla malattia quindi implica il divieto di lavorare”. Una malattia perenne, insomma.

Il punto è che questa decisione del governo provoca un triplo danno: alle aziende, che rischiano di trovarsi dimezzato il personale, alle casse dell’Inps e ai lavoratori stessi, che si trovano costretti a continue maratone di Netflix e ad infornare pizze e focacce. Che può esser divertente il primo giorno, forse. Ma già al secondo – come Bruce Chatwin – inizi a chiederti: “Che ci faccio qui?”. Che faccio del mio tempo? Che faccio delle mie compentenze? Perché non posso partecipare – ovviamente da remoto – a quella riunione a cui tengo tanto e per la quale ho messo tanto impegno? Perché mi costringono a non far niente quando invece ho voglia di fare? Perché – in definitiva – non vogliono che io migliori e avanzi socialmente?

Si dice che i detti conservino le verità più profonde della nostra società. Ne sono convinto: “Il lavoro nobilita”. Nel senso che ti dà un dovere, come insegna Ortega y Gasset, e la nobiltà si riconosce innanzitutto per i doveri: “La nobiltà si definisce per l’esigenza, per gli obblighi, non per i diritti. Noblesse oblige. ‘Vivere a proprio gusto è da plebeo; l’animo nobile aspira a un ordine e alla legge’ (Goethe)”. In maniera più poetica, Charles Peguy, autore francese morto nella prima battaglai della Marna (1914), scriveva ne Il denaro: “Un tempo gli operai non erano servi. Lavoravano. Coltivavano un onore, assoluto, come si addice a un onore. La gamba di una sedia doveva essere ben fatta. Era naturale, era inteso. Era un primato. Non occorreva che fosse ben fatta per il salario, o in modo proporzionale al salario. Non doveva essere ben fatta per il padrone, né per gli intenditori, né per i clienti del padrone. Doveva essere ben fatta di per sé, in sé, nella sua stessa natura. Una tradizione venuta, risalita dal profondo della razza, una storia, un assoluto, un onore esigevano che quella gamba di sedia fosse ben fatta. E ogni parte della sedia fosse ben fatta. E ogni parte della sedia che non si vedeva era lavorata con la medesima perfezione delle parti che si vedevano. Secondo lo stesso principio delle cattedrali. E sono solo io – io ormai così imbastardito – a farla adesso tanto lunga. Per loro, in loro non c’era allora neppure l’ombra di una riflessione. Il lavoro stava là. Si lavorava bene. Non si trattava di essere visti o di non essere visti. Era il lavoro in sé che doveva essere ben fatto”.

Tempi andati, forse per sempre. Il problema infatti non è più, come ai tempi di Peguy, che il lavoro viene fatto male. Oggi si impone di non lavorare e di morire chiusi in casa. Sognando il reddito di cittadinanza.

il giornale.it

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