Coronavirus, così il cane potrebbe “schermarci” dalla malattia

“È più sicuro abbracciare un cane che stringere la mano a uno sconosciuto. La trasmissione del Covid-19 avviene esclusivamente da uomo a uomo e non ci sono prove che gli animali da compagnia possano contrarre o trasmettere la malattia”.

È quanto dichiara Marco Melosi, presidente Associazione nazionale medici veterinari italiani (Anmvi), ai taccuini dell’Adnkronos. Si tratta dell’ennesima smentita della diceria che i nostri amici a quattro zampe siano diventati degli untori. Ma se per Melosi coccolare il proprio cane non è rischioso, c’è chi si è spinto a ipotizzare qualcosa di più.

Le carezze a Fido potrebbero diventare addirittura una panacea per la pandemia. Una teoria affascinante che arriva proprio dall’Italia, ed è contenuta in uno studio realizzato dall’Università Cattolica di Roma, in collaborazione con l’Università Magna Graecia di Catanzaro e l’Università Statale di Milano. Il lavoro degli esperti ha condotto a una scoperta che potrebbe aprire la strada a nuovi trattamenti e vaccini: la proteina dello “spike” del coronavirus umano ha delle similitudini con quello canino e bovino. Detta così fa venire istintivamente in mente quel vecchio detto secondo cui “il cane assomiglia al padrone”. E in parte l’assonanza non è poi così campata in aria. Solo che qui siamo nel campo della scienza, e allora cerchiamo di capire che cosa sia questo “spike”.

È l’arma segreta della famiglia delle Coronaviridae, di cui fa parte anche la Sars-CoV-2. Tecnicamente si tratta di una particolare proteina che riveste il virus, come fosse una corazza, conferendogli il tipico aspetto a “corona” da cui prende il nome. Ed è proprio grazie allo “spike” che il virus si lega alle cellule infettandole. Quelle umane, come nel caso della Sars-CoV-2, ma anche quelle di alcuni animali. Sì perché la famiglia delle Coronaviridae comprende diverse sottofamiglie di virus. Una di queste, la Betacoronavirus, può trovare ospitalità in una vasta gamma di animali, tra cui anche cani e bovini.

Ebbene, i ricercatori che si sono occupati di effettuare lo studio hanno messo a confronto la proteine dello “spike” della Sars-CoV-2 con quelle del coronavirus canino e bovino. La scoperta ha dell’incredibile. La somiglianza complessiva dei due “spike” è bassa, questo significa che i virus ospitati da cani e bovini non possono infettare l’uomo. Tuttavia, andando a restringere l’analisi delle sequenze si è riscontrata un’elevata analogia rispetto alle parti dello “spike” che suscitano una risposta immunitaria (i cosiddetti epitopi). In parole povere, l’esposizione dell’uomo a un coronavirus canino o bovino potrebbe indurre la produzione di anticorpi parzialmente protettivi nei confronti dell’infezione da Sars-CoV-2.

Questa parziale schermatura, in caso di contagio, potrebbe portare allo sviluppo di forme asintomatiche o paucisintomatiche, quindi più blande, della malattia. Per ora si tratta solo di supposizioni, ma il team di scienziati è determinato ad andare fino in fondo. “È importante sottolineare – spiega il professor Andrea Urbani, direttore Area Diagnostica di Laboratorio del Policlinico Universitario A. Gemelli IRCCS e ordinario di biochimica clinica e biologia molecolare clinica all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Roma – che si tratta solo di ipotesi di lavoro, che andranno vagliate da studi ed esperimenti ad hoc. Ci piacerebbe arrivare a dimostrare un giorno che l’esposizione ad alcuni animali domestici, ci consente di sviluppare delle immunoglobuline protettive, che permettono di dare luogo a un’infezione da Covid in forma attenuata, in caso di esposizione. Ma per adesso è senz’altro prematuro fare queste affermazioni”.

il giornale.it

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