“Ho visto il Coronavirus in Cina: ecco perché non dovete avere paura”

Mascherina sul volto, un cappello da baseball in testa e la macchina fotografica a tracolla. Alex guarda l’arrivo delle ambulanze all’ospedale di Lodi e scatta ininterrottamente immagini che ritraggono medici dentro scafandri ermetici, ammalati sulle barelle e aggrappati a bombole dell’ossigeno, e una frenesia collettiva che è la rappresentanza più eloquente del panico che ha travolto il Capoluogo dopo che il presidente della Regione Lombardia Attilio Fontana ha annunciato 51 nuovi casi di Coronavirus all’ospedale di Lodi. ”Io sto realizzando un lungo reportage sulla diffusione del Coronavirus nel mondo. Fino a poche settimane fa mi trovavo in Cina, a Wuhan”. Alex è un fotografo dell’est Europa e premette subito che non rilascia un intervista in video perché il fatto di aver viaggiato in Paesi colpiti dall’infezione lo metterebbe in difficoltà al momento del suo ritorno a casa. Concede però ugualmente un’intervista a patto che venga rispettato l’anonimato.

Tu che hai visto la situazione in Cina e adesso sei in Italia, in entrambi i casi hai riscontrato situazioni di panico collettivo?

Il panico in Europa credo che sia stato dettato da una cattiva informazione su quanto avveniva in Cina. Mi spiace dirlo, essendo un fotogiornalista, ma i media hanno contribuito molto a creare del panico qua in Italia e più in generale in Occidente. Nel momento in cui l’epidemia si diffondeva in Cina la realtà delle cose non è stata raccontata nella maniera corretta, sono state commesse delle gravi omissioni e la gente, in Europa, ha iniziato ad aver paura di quello che stava accadendo prima ancora che fosse direttamente coinvolta.

A cosa ti riferisci nello specifico?

Quando le testate internazionali raccontavano quello che accadeva a Wuhan erano più concentrate su questioni controverse, come gli scaffali vuoti e le strade deserte, piuttosto che a spiegare che questi episodi avvenivano anche in virtù del Capodanno Cinese e non solo a causa del virus. I racconti apocalittici hanno generato paura in Occidente e dal mio punto di vista si è trattato di disinformazione. Non è stato detto infatti che i supermercati vuoti venivano riempiti di merce all’indomani e che durante il Capodanno cinese le città si svuotano sempre, è così da anni. Molta gente, approfittando delle feste, viaggia e va a trovare i parenti e lascia le città. È vero che è stata imposta la quarantena e che c’era pochissima gente per le vie cittadine, ma il motivo non è solo dovuto al Coronavirus. Durante il Capodanno oltre cinque milioni di persone viaggiano da Wuhan ad altre località della Cina, e non è un dato indifferente: ma questo non è stato detto.

Hai analizzato la situazione di psicosi che si è creata qui in Italia, ma in Cina,invece, hai assistito anche lì a scene di panico?

Molto meno che qua in Italia e c’è una ragione: la censura. È terribile dirlo, ma in questo caso il controllo dei media, e anche della rete, ha impedito il propagarsi dell’isteria collettiva. In Italia, come in tutto l’Occidente, dove invece l’informazione è libera, chiunque ha voluto rendersi partecipe del dibattito: blogger, podcaster, social attivisti, cittadini allarmisti, complottisti, nessuno ha rinunciato a dire la sua. E gli effetti li abbiamo visti. Inoltre, il Coronavirus, come notizia, è molto fotogenico e la stampa non ha lesinato sul pubblicare immagini, spesso decontestualizzate, ma altamente impattanti.

Prevedevi, dopo aver vissuto come testimone l’esplosione dell’infezione in Cina, che quanto avvenuto in Oriente si sarebbe riproposto a breve anche qua in Europa, e in Italia nello specifico?

Io non sono sorpreso. Mi sorprende che non sia stato preventivato. E la Lombardia, a mio avviso, essendo una regione produttiva, con industrie, una delle zone più importanti per il commercio in Europa, un polo attrattivo per viaggiatori e visitatori di ogni settore, aveva tutte le credenziali perché divenisse un possibile focolaio. In un mondo di viaggi e scambi continui tra Paesi le zone più esposte a questo tipo di problemi sono quelle maggiormente popolate e più urbanizzate, non di certo quelle rurali o isolate.

Quale differenze hai riscontrato nel lavorare qui in Italia e in Cina?

Come giornalista regolarmente accreditato non ho avuto nessun problema qui in Italia. Ho raccontato la quotidianità fotografando ospedali, personale medico, militari. Ognuno ha svolto il suo ruolo nel rispetto dell’altro e della propria etica e coscienza professionale. In Cina, come dicevo prima, essendoci la censura e un controllo serrato sui media non è possibile lavorare liberamente e spesso ho avuto paura perché in alcune occasioni, soprattutto quando fotografavo gli ospedali appena costruiti, sono stato minacciato e allontanato.

Quando pensi finirà tutto questo?

Non lo so, e nessuno lo sa. So però che questa è una grande sfida per l’Occidente. Un test per capire chi siamo e come reagiamo in situazioni di crisi e di panico che da molto tempo non affrontavamo. Dobbiamo cercare di trarre insegnamento da questa epidemia di Coronavirus per migliorarci sia come singoli ma soprattutto come collettività

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