Via i funzionari di Wuhan. Il regime teme la protesta che ora infiamma il web

Fa più paura il contagio del virus o quello di una protesta capace d’infiammare la Cina mettendo con le spalle al muro il presidente Xi Jinping e la dirigenza comunista? La domanda non è irrilevante.

Il superamento dei mille decessi è stato accompagnato ieri dal comunicato del Partito comunista che annunciava l’invio nella provincia di Hubei, quella dell’epidemia, di un alto funzionario incaricato di sostituire due responsabili della sanità locale e rafforzare «la lotta in prima linea contro l’epidemia».

Il rotolar di teste, 24 ore dopo l’apparizione in pubblico di un presidente con mascherina anti-contagio, testimonial – più o meno convincente – dell’impegno nella lotta all’epidemia, si accompagna a inquietanti segnali di dissenso. Il più sostanziale è il documento intitolato «Allarme virale, quando la rabbia supera la paura» diffuso su internet dal professore Xu Zhangrun, un’ex-docente di legge dell’università di Tsinghua radiato nel marzo 2019 in seguito a un articolo contenente critiche al Partito Comunista e al suo leader. Ora però il professor Xu si spinge più in là. Consapevole di rivolgersi a un uditorio reso più ampio e ricettivo dal crescente malcontento il professore spara a zero su una classe dirigente accusata di trasformare, grazie ai propri errori, «qualsiasi disastro naturale in calamità». Errori amplificati da una «cultura dell’omissione» responsabile per il dissidente di una «sistematica impotenza. Il coronavirus rivela come questo sistema di governo sia essenzialmente marcio» scrive Wu. Le durissime invettive sono accompagnate da un fuoco di fila su un presidente citato con appellativi tradizionali come «arbitro finale» o «signore del popolo» destinati a evidenziare la distanza tra lui e i sudditi. Ma la parte politicamente più aggressiva e pericolosa per il regime è quella in cui il professore tenta di trasformare la rabbia anti autorità generata dalle omissioni sull’epidemia in protesta politica generalizzata, capace di saldarsi con quella di Honk Kong. Riprendendo i temi cari ai dimostranti dell’ex colonia inglese Wu invita a rivolgere alle autorità «5 richieste» che vanno dalla libertà di espressione, d’incontro e di voto fino alla pretesa di nominare un’autorità indipendente per affidarle un’inchiesta sulla gestione della lotta al virus.

Ancor più aggressivo suona il finale in cui esorta i connazionali a esprimere «rabbia contro questa ingiustizia, illuminare le proprie vite con una fiammata di decenza e rompere l’ oscurità mortificante per salutare l’alba». Il plateale invito alla ribellione che, in altri momenti, costerebbe l’immediato trasferimento in galera dell’incauto professore minaccia di non passare inascoltato.

La platea più disponibile potrebbe rivelarsi proprio quella zona di Wuhan che, prima di diventare l’ epicentro del coronavirus fu, nel 1911, la culla della rivolta responsabile del crollo dell’Impero. Tradizionalmente turbolenta la città di Wuhan è stata al centro di sanguinose lotte intestine anche nel 1967, al culmine della Rivoluzione Culturale. E, nel 1988, fu uno dei centri dove la rivolta di piazza Tienanmen fece più proseliti. Proprio per questo Xi Jinping e tutta la classe dirigente guardano con molta preoccupazione all’attuale malcontento. Un malcontento che, a differenza di migliaia di rivolte locali spesso violente, ma facili da sedare in quanto incapaci di allargarsi ad altri centri minaccia – al pari del coronavirus – di contagiare centinaia di milioni di cinesi. E far, per la prima volta, traballare il regime.

il giornale.it

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