Pace in Medioriente: la rivoluzione di Trump il sì di Netanyahu e le incertezze palestinesi

Martedì alla Casa Bianca il presidente Trump e Benjamin Netanyahu hanno festeggiato una rivoluzione storica per l’idea di pace in Medio Oriente; da ieri, dopo l’entusiasmo, comincia il lavorio, il che fare, i dissensi.

Una commissione congiunta studia quando e come debba essere realizzato l’accordo, la destra israeliana protesta e così parte della sinistra, ambedue sostengono che lo scopo dei due protagonisti sia elettorale; mentre per alcune ore è sembrato che l’annessione della Valle del Giordano dovesse essere immediata, adesso la prudenza rallenta le mosse di Israele.

Netanyahu è volato con tutti i giornalisti a Mosca, certo per discutere con Putin la novità, ma anche a riprendere sul suo aereo la giovane Na’ama Issacharov che, oggi, dopo essere stata condannata a sette anni perchè aveva in valigia 90 grammi di marjuana, sarà finalmente graziata. Per Bibi sarà dunque un ritorno coronato da due grandi successi, mentre, in questi giorni, dopo il suo rifiuto della immunità parlamentare, è stato ufficialmente incriminato.

L’opposizione di Abu Mazen, urlata e amplificata dall’invito a Hamas e alla Jihad Islamica a Ramallah, sembra smorzata. Rallentano per ora i roghi di bandiere e di foto di Trump, sia perchè alla fine può avvantaggiarsene solo Hamas, sia a causa dell’Arabia Saudita, Baharain, Emirati, Oman e a modo suo anche dell’Egitto, che hanno dichiarato rispetto e sostegno per il tentativo di pace. Forse anche alla Mukata si comincia a leggere meglio il progetto. Trump rivoluziona il concetto base delle trattative fallite: «pace in cambio di terra». La formula, dal 1948 fino a oggi, ha visto solo rifiuti, concessioni sempre più larghe, e, piuttosto continui rilanci terroristici, fino alla terribile Intifada e poi allo sgombero di Gaza nel 2005.

Trump riconoscerà uno Stato Palestinese cui attribuisce il doppio dello spazio attuale, e a Gerusalemme Est capitale palestinese stabilirà l’ambasciata americana. Sancisce che nessuno sarà sgomberato dalla sua casa, né ebrei né palestinesi. I Territori non saranno destinati allo sgombero come stabiliscono i vecchi piani. Al primo posto, come del resto anche dice l’Onu, il riconoscimento della necessità della sicurezza israeliana, che vuol dire Valle del Giordano (e come, altrimenti, visto che divide dalla Giordania, e poi dalla Siria, dall’Iraq, fino all’Iran) e delle zone della West Bank della Giudea e della Samaria, a salvaguardia del corrugamento costale dove si trovano le città israeliane.

Trump intende ricompensare l’annessione con la cessione di una zona agricola importante (gli abitanti ebrei sono in agitazione) del sud, e con la cessione del Triangolo di Wadi Ara, israeliano, anche se la maggioranza dei cittadini è palestinese. Infine 80 miliardi di dollari sono gli investimenti che potrebbero «lanciare» la nuova Palestina. Ma Trump chiede in modo tassativo di smontare la macchina terroristica con lo smantellamento di Hamas e un’unica autorità palestinese che lavori per costruire, finalmente, un vero stato. Al piano sta a cuore la sicurezza a Israele e anche il rifiuto dell’idea di origine sovietica che gli ebrei siano usurpatori di una terra altrui: non è così, essi sono indigeni tornati nella culla della loro storia. Questo dice il piano di Trump, e tutto questo avrebbe potuto essere detto dal 1948. Allora, cinque eserciti arabi assalirono Israele. Stavolta, i Paesi moderati non sembrano disposti a farlo. L’Iran è isolato nella condanna feroce.

il giornale.it

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