Il Pd salta sul cavallo vincente. Poi scatterà la resa dei conti

A ora di pranzo, i dirigenti del Pd tirano un sospiro di sollievo: l’ex premier Conte ha capito l’antifona e accettato le briglie.

Non si metterà di traverso barricandosi a Palazzo Chigi come un novello Trump alla Casa Bianca (con Dibba al posto dello sciamano di Capitol Hill) per far saltare il governo dell’«usurpatore» Draghi.

Così nel pomeriggio il segretario Zingaretti può convocare la Direzione e sancire ufficialmente il via libera del suo partito al terzo governo della legislatura, il primo senza Conte e Casalino. «Il Pd vuole aiutare a costruire una maggioranza ampia ed europeista e una azione di governo per la riscossa e la ripartenza italiana», dice Zingaretti: «Credo ci siano le condizioni per costruire e portare a compimento questa sfida. Il Pd come sempre farà la sua parte e su questo chiedo il mandato della Direzione». Mandato immediatamente concesso: in questa fase il Pd deve mostrarsi unito e compatto, perché l’esperimento Draghi decolli in sicurezza.

Poi si aprirà la resa dei conti interna, perché l’ala liberal e quella ex Margherita non perdonano alla «Ditta post-Pci» (leggi Bettini, Orlando, lo stesso Zingaretti) di aver impiccato il Pd al nome di Conte, restando totalmente spiazzati dall’affondo di Renzi e dallo scarto di Mattarella.

In cambio del suo piccato concession speech, ovviamente, Conte ha ricevuto omaggi, lusinghe e promesse, nel turbinio frenetico di telefonate e colloqui con cui è stato pressato da quei ministri e dirigenti dem che vogliono far partire il nuovo esecutivo. Una promessa su tutte ha chiesto, per fare l’estremo sacrificio: essere indicato come il leader nonché premier in pectore passato, attuale e futuro della coalizione rossogialla, di qui all’eternità. I dem gli hanno detto: «Ma certo, assolutamente, come puoi pensare il contrario» e lui ha allestito il comizietto in piazza, davanti a Palazzo Chigi, per lasciare il passo a Draghi e lanciare al contempo la «Alleanza per lo sviluppo sostenibile», ossia Pd più M5s più Leu (Renzi ovviamente viene tenuto fuori). Il nome, però, andrà presto cambiato: non solo perché l’ex ministro Giovannini lo ha rivendicato («È da cinque anni il nome della mia associazione»), ma anche perché in sigla fa «ASS», che in inglese suona male (viene tradotto con: asino, sedere o imbecille).

Subito, con tempismo organizzato, per il capo del governo sconfitto da Matteo Renzi nonché mancato (per ora) kamikaze anti-Draghi, si è elevato un potente coro laudatorio, un fiume di miele, complimenti e gratitudine dal Pd e dintorni: «Grazie al presidente Conte: un discorso di grande responsabilità e lungimiranza», scrive Zingaretti su Twitter. «Visione, generosità e sensibilità istituzionale nelle sue parole», fa eco Franceschini. «Un discorso politico sintetico ma denso di significati. Sereno e nobilmente costruttivo», si spertica emozionato Bettini.

Ora si aprono due partite sofferte, per il Pd: la composizione della coalizione e della squadra di governo. Molti ministri salteranno, la conferma dovrebbe arrivare solo per Guerini, Franceschini, Amendola, ma potrebbe entrare Orlando. Gran parte del Pd vuole (a differenza di Draghi) che la Lega resti fuori. «Salvini entrerebbe solo per sporcare l’opera di un governo europeista», dice un ministro. Ma i «neo-draghiani» più convinti spingono perché «non si alzino barricate» visto che deve essere «un governo di salvezza nazionale». E lo stesso Zingaretti sembra lasciare al premier incaricato il compito di «costruire il perimetro della maggioranza», mettendo in chiaro che il Pd chiede «una chiara vocazione europeista».

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