Autostrade: un regalo ai Benetton mascherato da nazionalizzazione

Roma, 16 lug – Quanto incasseranno i Benetton dall’uscita dall’azionariato di Autostrade per l’Italia? Ancora non è chiaro – lo sapremo forse tra qualche mese – ma una cosa è certa: il fatto che il titolo della capogruppo Atlantia abbia nella giornata di ieri letteralmente preso il volo in borsa – con un clamoroso +26,65% alla chiusura di ieri – significa che la famiglia trevigiana non se ne andrà con un pugno di mosche in mano. “Chi muove i soldi ha capito che a vincere la partita ancora una volta sono stati i Benetton“, ha commentato causticamente il direttore de Il Tempo, Franco Bechis.

Il monopolio naturale per eccellenza

Che finalmente le autostrade – non tutte, attenzione: Aspi controlla la metà, quasi 3 mila km sui 6 mila attualmente dati in concessione – tornino in mano allo Stato è una buona notizia. Parliamo d’altronde del monopolio naturale per eccellenza (insieme alle ferrovie) per il quale l’affidamento a qualsiasi soggetto al di fuori del pubblico si traduce immancabilmente nella creazione di una profittevolissima rendita di posizione, accompagnata da un’ipertrofia burocratica che rende difficile se non impossibile districarsi fra gli estremi degli accordi siglati. Posto quindi che la gestione statale – la quale non dovrebbe tradursi nel “semplice” affidamento ad una società creata ad hoc a partecipazione pubblica, lasciata poi al suo destino senza alcuna visione d’insieme – è l’unica desiderabile, la nazionalizzazione non poteva che essere il naturale esito di un percorso successivo all’emergere di palesi mancanze da parte del soggetto privato, quello per intenderci che mentre portava gli utili alle stelle dimezzava gli investimenti sulla rete.

Perché la concessione non è stata revocata?

Parliamo ovviamente di quanto è emerso dalla tragedia del Ponte Morandi in avanti, data-simbolo a partire dalla quale il Movimento 5 Stelle, azionista di maggioranza di ben due governi consecutivi, ha continuato a chiedere a gran voce la revoca della concessione di Autostrade per l’Italia. Strada irta di difficoltà finita persino in un passaggio del decreto milleproroghe, tramite il quale si posero le basi per decurtare la penale da corrispondere ad Atlantia in caso di scioglimento anticipato del contratto: da 23 a 7 miliardi. La domanda è: li avremmo veramente dovuti pagare? La risposta non l’abbiamo, ma sembra che nemmeno nelle sedi competenti – in primis il ministero delle Infrastrutture e dei trasporti – si siano mai seriamente posti il quesito. Il tema è scivoloso, ma il titolare del dicastero – Danilo Toninelli del M5S prima, Paola de Micheli in quota Pd dopo – avrebbe quantomeno dovuto attivarsi per avere un quadro completo della situazione.

D’accordo che l’avvocatura dello Stato aveva evidenziato i profili di rischio della revoca, parere che però è arrivato (era febbraio di quest’anno) prima della sentenza con cui pochi giorni fa la Corte Costituzionale ha dato ragione al governo nella scelta di escludere Autostrade per l’Italia dalla ricostruzione del viadotto Polcevera, pur caricando sulle sue spalle i relativi costi: “La decisione del Legislatore di non affidare ad Autostrade la ricostruzione del Ponte – hanno scritto i giudici della Consulta – è stata determinata dalla eccezionale gravità della situazione che lo ha indotto, in via precauzionale, a non affidare i lavori alla società incaricata della manutenzione del Ponte stesso”. Non una certificazione delle (palesi, non siamo noi a dirlo) inadempienze, certo, comunque un precedente importante da spendere qualora si fosse tentata la via della revoca.

Un regalo ai Benetton

L’esecutivo ha invece giocato la carta dell’accordo transattivo. Stando ai dettagli circolati, la famiglia Benetton diluirà la propria partecipazione tramite un aumento di capitale cui parteciperà (a che prezzo? Qui vedremo quanto ci costerà la nazionalizzazione peggio gestita nella storia d’Italia) Cassa Depositi e Prestiti, traendo persino un profitto che si preannuncia discreto dalla cessione (a chi non è ancora dato saperlo: potrebbe anche essere un altro investitore pubblico o magari l’ennesimo investitore estero di cui non sentivamo il bisogno) di ulteriori quote che farebbero scendere Atlantia attorno al 10% del capitale, abbastanza per non esprimere più consiglieri d’amministrazione e non dover più farsi garante di qualche miliardo di debiti, ma parimenti sufficienti per continuare in futuro a partecipare alla spartizione dei dividendi. Senza più responsabilità dirette conseguenti agli ultimi vent’anni e oltre di malagestione.

Filippo Burla

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