Il Piave: quando l’Italia si forgiò nelle tempeste d’acciaio

Roma, 24 mag – L’immagine di Roberto Fico, neopresidente della Camera, che alla vigilia del 24 maggio non canta l’inno nazionale e, in più, lo ascolta con le mani in tasca, è senz’altro un segno dei tempi. Tempi di fango e populismo straccione. E pensare che, poco più di 100 anni fa, l’Italia si accingeva a “stringersi a coorte” per riprendere in mano il proprio destino. Un destino da forgiare nel sangue, nel dolore e nel combattimento. E così, quel 24 maggio del 1915, il Piave mormorò salutando i nostri fanti che, imbracciate le armi, sfidarono uno degli eserciti più potenti del mondo. Per Trento e Trieste, per concludere il Risorgimento, per rendere all’Italia il ruolo che veramente le competeva. Parliamoci chiaro: la guerra non era l’opzione più popolare.
Le schiere dei neutralisti erano più nutrite di quelle degli interventisti. Eppure, questi ultimi avevano dalla loro parte ragione e passione da vendere. Sindacalisti rivoluzionari, futuristi, irredentisti, socialisti dissidenti, i nazionalisti di Corradini, poeti come D’Annunzio, benché minoranze, riuscirono a infiammare le folle e a forzare il governo per entrare in guerra. Il dato rilevante è che per tutti questi attori si trattava di una guerra rivoluzionaria: non per sete di dominio, ma per fare gli italiani, era necessario combattere. Per renderli finalmente popolo e nazione. E quasi tutti partirono: Mussolini, D’Annunzio, Marinetti, Corradini, Boccioni e tanti altri “interventisti intervenuti”.
Alcuni, molti non torneranno. Ad ogni modo, l’obiettivo era stato raggiunto: la guerra, dopo quattro anni di trincea e al prezzo di 600mila morti, era vinta. Non si trattò però solo di una mera riscrittura di confini: la Grande Guerra, infatti, fu la prima vera grande prova collettiva di tutto il popolo italiano. Militari e civili, uomini e donne, meridionali e settentrionali, tutti avevano sofferto e vinto insieme. Perché così si fecero gli italiani: non con le carte bollate e con l’”onestà”, ma con il fuoco incandescente dell’eroismo temprato nelle tempeste d’acciaio.

Valerio Benedetti

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