Cambiano idea su tutto per non decidere niente

Si sa: il politico, come la «donna» cantata dal Duca di Mantova nel Rigoletto, è mobile. Ma a tutto dovrebbe esserci un limite.

In cento giorni di governo gialloverde, quel limite è stato varcato con frequenza inusitata persino nella politica italiana.

Colpa, spesso, delle roboanti promesse elettorali degne del Barone di Munchausen, del tutto scollegate dalla realtà e dalle risorse a disposizione. Prendete il caso Ilva, che ora causa risse e sommosse nella «base» – soprattutto tarantina – dei Cinque stelle: nella città del polo siderurgico, i grillini hanno incassato un’enormità di voti garantendo che avrebbero chiuso e raso al suolo l’acciaieria, riconvertendola in parco-giochi e provvedendo – non si sa bene come – a dar lavoro alle decine di migliaia di disoccupati così prodotti grazie – si legge nel mitologico «contratto di governo» a «green economy, energie rinnovabili, economia circolare». Tutta fuffa, ovviamente, ma a Taranto se le erano bevuta. E così, quando – dopo mille giravolte – Gigino Di Maio ha invece firmato l’accordo con ArcelorMittal già predisposto dal suo predecessore Calenda, i Cinque stelle locali hanno gridato al tradimento e assalito i parlamentari eletti in quel di Taranto. La stessa sorte, con ogni probabilità, la subiranno anche le promesse di bloccare Tap e Tav, non resta che attendere.

Sui vaccini, in compenso, i «contrordine compagni» sono stati talmente numerosi e ravvicinati che neppure la ministra della Sanità Giulia Grillo saprebbe dirvi se è attualmente in vigore l’obbligo, l’obbligo flessibile (spettacolare ossimoro che si avvicina alle «convergenze parallele» di morotea memoria), l’autocertificazione o il «fate un po’ come vi pare». Col risultato che i vocianti no vax sono più avvelenati di prima, e i genitori responsabili invece sono smarriti, quando non indignati, per la indecorosa confusione fatta sulla salute dei bambini.

Sul reddito di cittadinanza (nel frattempo diventato un’edizione minore del Rei già introdotto dai governi Pd) il giudizio è per ora sospeso. Gli elettori leghisti intanto sono ancora lì che aspettano l’abolizione della riforma Fornero sulle pensioni. «Su questo non ho dubbio alcuno: dovrà essere il primo provvedimento del governo che la Lega farà se vincerà le elezioni», aveva annunciato Matteo Salvini in campagna elettorale. «Con orgoglio dico che la cancellerò al primo Consiglio dei ministri che faremo», aveva precisato. Siamo ad oltre 15 riunioni del Consiglio, ma la Fornero sta sempre lì, e al massimo si discute (per ora senza costrutto) di una vagamente possibile quota 100.

Ma persino sul pezzo forte della sua propaganda politica, ossia l’immigrazione, Salvini è stato costretto al dietrofront: «Ci sono mezzo milione di irregolari in Italia. Con le dovute maniere vanno allontanati tutti», aveva detto urbi et orbi in campagna elettorale, promettendo che «appena saremo al governo noi» l’operazione impacchettamento e rimpatrio di mezzo milione di immigrati sarebbe partita a razzo. Domenica scorsa, il ministro dell’Interno ha incontrato la realtà: visto che, riconosce, «l’unico accordo che funziona è quello con la Tunisia» e che altri non sono alle viste, «ora ne rimpatriamo 80 a settimana, ma anche se ne espellessimo 100 ci metteremo 80 anni». Per non parlare dei costi enormi dell’operazione. Insomma, persino il braccio destro di Salvini, Giancarlo Giorgetti, è stato costretto ad ammettere che sì, in effetti, con l’annuncio del rimpatrio di mezzo milione di clandestini «Matteo la ha sparata un po’ grossa».

Ci si potrebbe consolare con la flat tax, ma sarebbe alquanto prematuro: un po’ come la «flessibilità» dell’obbligo sui vaccini, la moltiplicazione delle aliquote della cosiddetta tassa piatta (che già dal nome di aliquota ne prevederebbe una e una sola) e la loro «molto graduale» riduzione annunciata da Tria, sembrano destinate a svuotare di significato la promessa.

E l’euro, un tempo orrido nemico da abbattere? I Cinque stelle avevano già fatto un salto mortale carpiato in campagna elettorale: non più «uscirne prima possibile», come tuonava Beppe Grillo qualche mese fa, ma restarci perinde ac cadaver. Anche i leghisti, sul tema, tentennano assai. E si sono dovuti rimangiare pure la fine delle sanzioni all’amico Putin, promesse in lungo e largo e scolpite nel «contratto di governo»: a giugno in sede Ue, il governo italiano ha detto sì alla loro conferma.

Tanti e tali cambi di fronte da far impallidire anche il ricordo dei ripensamenti di Matteo Renzi, che pure all’epoca fecero scalpore e che gli furono all’infinito rinfacciati. Da quell’ormai proverbiale «Enrico stai sereno» via sms, smentito poche settimane dopo dalla perentoria richiesta di dimissioni del premier Letta arrivata dal Pd, alla promessa «mai a Palazzo Chigi senza passare per il voto». Fino a quel fatidico impegno nel 2015: «Intendo assumermi precise responsabilità, è un gesto di coraggio e dignità. Se perdo il referendum io non solo vado a casa, ma smetto di far politica». Seguito dalle dimissioni da premier e segretario, poi dalla ricandidatura, poi dalle dimissioni di marzo. E oggi nessuno nel Pd se la sente di giurare che non si ricandiderà. IL GIORNALE.IT

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