Elly Schlein, il retroscena: “Pd pronto ad archiviarla”

Nel Partito Democratico si apre un nuovo fronte di tensione, stavolta in vista del referendum sul lavoro dell’8 e 9 giugno. Sei volti noti del partito – Giorgio Gori, Lorenzo Guerini, Marianna Madia, Pina Picierno, Lia Quartapelle e Filippo Sensi – hanno firmato una lettera a la Repubblica, indirizzata in realtà alla segretaria Elly Schlein. Il messaggio è chiaro: non voteranno tre dei cinque quesiti referendari. Una posizione che, paradossalmente, li avvicina più alle idee di Ignazio La Russa che a quelle della loro leader.

Il motivo della spaccatura? La volontà di Schlein di archiviare il Jobs Act, la riforma sul lavoro approvata sotto la segreteria di Matteo Renzi. I sei firmatari, ex renziani, respingono quella che definiscono una resa dei conti ideologica. “Non voteremo – scrivono – perché il futuro del lavoro non può passare da un regolamento di conti con il passato”.

Al di là del contenuto tecnico dei quesiti, la scelta di astenersi è un atto politico diretto contro la linea della segreteria. Schlein viene accusata, più o meno esplicitamente, di voler sradicare l’anima riformista del Pd, sostituendola con una versione più spostata a sinistra, in sintonia con il Movimento 5 Stelle e la Cgil di Landini.

Ufficialmente, al Nazareno si parla di pluralismo interno. Ma nei corridoi prevale il malumore. Il partito aveva approvato all’unanimità la campagna referendaria, e ora si trova a gestire defezioni pubbliche e fratture interne. Una contraddizione che evidenzia quanto la leadership di Schlein non stia riuscendo a ricomporre le divergenze.

Il problema non è solo la diversità di opinioni – fisiologica in un grande partito – ma l’impossibilità di trovare una sintesi. Il rischio è la paralisi, esattamente come accadde durante la stagione di Renzi, quando il tentativo di rinnovamento profondo si scontrò con resistenze interne mai risolte, finendo per lacerare il partito.

Due leader, lo stesso copione

La storia sembra ripetersi. Anche Schlein, come Renzi, non si limita a guidare il partito, ma vuole cambiarlo radicalmente. L’accusa che le viene rivolta da una parte del Pd è quella di voler emarginare l’area più governista e dialogante, per sostituirla con una sinistra più movimentista e identitaria.

La risposta della segretaria resta immutata: “Io prima non c’ero. Mi hanno chiamata per cambiare.” Una frase che suona come una rottura netta con il passato, ma che rischia anche di allontanare un’intera fascia di elettorato moderato e riformista.

Il rischio: perdere l’identità

Il Pd si trova così davanti a un bivio identitario. Innovare o conservare? I sei parlamentari che si sono tirati indietro dal voto non cercano lo scontro, ma pongono una questione cruciale: quale sarà l’anima del Pd del futuro? Quella riformista e di governo, oppure quella militante, radicale, più vicina alle piazze che al Palazzo?

La domanda è semplice: può un partito nato per unire anime diverse continuare a sopravvivere se si divide a ogni cambio di segreteria? Se il Pd non trova un punto di equilibrio tra le sue tante identità, rischia di trasformarsi in una forza sterile, incapace di offrire un progetto credibile per governare. E mentre il Paese chiede risposte, l’immobilismo interno rischia di diventare il suo vero nemico.

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