Faida nel Pd tra l’ala di Zingaretti e gli ex renziani

Nel Pd dilaniato da crisi di identità post-Conte, scontri tra correnti sui posti di governo e difficoltà a darsi un ruolo nel nuovo scenario politico, il segretario Zingaretti prova a resistere.

Le contestazioni alla sua linea e alla sua leadership si sono fatte sempre più assillanti, tanto che una parte dei suoi lo spinge a sfidare subito il dissenso accelerando il congresso per far fuori quelle che il vicesegretario (ora ministro) Andrea Orlando chiama sprezzantemente «scorie e rigurgiti del passato centrista renziano» e riaffermare l’identità da sinistra ex (ma non tanto) Pci. Il perfido Renzi, è l’anatema lanciato da Orlando, ha scatenato la crisi per «spaccare il fronte Pd-5Stelle» che si era creato sotto la illuminata guida di Giuseppi. E ora le sue «scorie» nel Pd (leggi la minoranza riformista, che contesta al segretario di essersi legato mani e piedi al fallito governo Conte e a M5s) vogliono «logorare il gruppo dirigente» dem. Le parole incendiarie del vicesegretario – che descrivono furibondo perché la sua corrente è l’unica rimasta a bocca asciutta sui sottosegretari – avvelenano il clima attorno alla direzione dem, convocata ieri pomeriggio per parlare di donne (nel senso della loro assenza dai ruoli apicali di governo). Gli ex renziani rimasti nel Pd si indignano e lo attaccano, la corrente di Lotti e Guerini, Base riformista, esprime «forte fastidio» per le sue parole, e in molti chiedono le sue dimissioni dalle cariche di partito, che però lui non ha alcuna intenzione di dare. Ma persino una fedelissima del segretario come Paola De Micheli, in direzione, ricorda che, una volta promossa al governo, lei – su richiesta dello stesso Zingaretti – si dimise da vicesegretaria. Sarebbe strano, par dire, se non lo facessero altri.

L’atmosfera è così mefitica che il segretario, nella sua relazione di apertura alla direzione (aggiornata – con comodo – a lunedì prossimo per i molti interventi) deve fare molte concessioni per evitare lo scontro. Così non nomina mai l’ex idolo Conte, e non evoca neppure le prospettive di alleanza strategica coi grillini (nel frattempo esplosi in mille pezzi) che erano il suo sol dell’avvenire. Anzi, recupera parole d’ordine, come quella di un Pd «riformista e a vocazione maggioritaria», che almeno sulla carta vogliono dire l’esatto contrario. Implora di «provare per una volta a non polemizzare su tutto», e invoca «unità nel pluralismo». C’è chi interpreta le aperture del segretario come un tentativo di addolcire la fronda interna, forte della voce di molti amministratori e sindaci di primo piano, magari cooptando la minoranza nel governo del partito. La vera resa dei conti è rinviata comunque all’Assemblea nazionale del 13 marzo: lì si capirà se e quando si farà il congresso, e si inizieranno a profilare gli schieramenti: da una parte Zingaretti (che secondo qualcuno potrebbe alla fine sfilarsi per correre come sindaco di Roma), dall’altra i «riformisti». Lo sfidante? Bonaccini, si dice, o magari una donna in ascesa come la segretaria toscana Simona Bonafè.

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