Dal superministero ridotto al ritorno del piano Colao. Grillini tagliati fuori dalla gestione dei fondi Ue

È la rivincita del Piano Colao e la resa di chi l’aveva bocciato. Sono ben tre i componenti della task force che ha stilato il piano a essere diventati ministri: il supermanager di editoria e Tlc Vittorio Colao alla Transizione digitale, l’ex presidente dell’Istat Enrico Giovannini alle Infrastrutture e ai Trasporti e il fisico Roberto Cingolani, già direttore dell’Istituto italiano di tecnologia, alla Transizione ecologica.

Se tre indizi fanno una prova, chi vuole capire cosa farà questo governo farà bene a rileggersi il piano Colao.

Al centro del piano c’era un deciso rilancio delle infrastrutture pubbliche con una decisa mazzata al Nimby: nelle 121 pagine della relazione compariva anche una norma mirata per vietare l’opposizione localistica a infrastrutture definite strategiche.

Va ricordato che ad affossare il progetto di rilancio firmato dal manager furono soprattutto i grillini e lo stesso Giuseppe Conte che organizzò in fretta e furia la baracconata degli Stati generali subito dopo che il piano era circolato. Per il M5s è uno schiaffo. E non è certo l’unico: il «super ministero» auspicato da Grillo non solo non è affidato a un esponente pentastellato, ma non è nemmeno tanto super. Il dicastero riunisce le deleghe dell’Ambiente e dell’Energia, ma altre tematiche rimangono in capo al Ministero dello Sviluppo, affidato al leghista Giancarlo Giorgetti. Con il ministero dell’Economia il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio affidati ai due ex tecnici del Mef che Casalino voleva cacciare, il risultato è che il M5s stelle risulta tagliato fuori dalle principali scelte che riguardano il Recovery plan. Al Movimento resta solo l’Agricoltura, affidata a Stefano Patuanelli, grillino considerato estraneo alle istanze più anti-capitalistiche, ma messo a capo di un settore che pesa solo per 2,5 miliardi di euro sull’intero Recovery plan.

L’incrocio di competenze scelto da Draghi per i ministeri che gestiranno il Recovery Plan fa invece pensare che il governo punterà a eliminare ostacoli burocratici e pastoie alla libertà d’impresa, come previsto dal piano Colao. Difficile immaginare che possano trovare spazio nel nuovo governo istanze come «l’analisi costi e benefici» usata da Toninelli per tentare, invano, di inceppare la Tav. O misure sfavorevoli a investimenti digitali come il 5G, su cui il piano Colao puntava forte auspicando un innalzamento dei limiti massimi di inquinamento elettromagnetico, che in Italia sono inferiori a quelli dell’Ue. Per non parlare delle discussioni che provocarono all’epoca le proposte sulla sospensione del codice degli appalti e le deroghe al Decreto dignità auspicate dalla task force. Stesso dicasi per lo scudo penale che doveva proteggere gli imprenditori da responsabilità indebite legate al contagio dei dipendenti sul luogo di lavoro, in caso di rispetto delle norme di sicurezza, ovviamente.

Idee incendiarie per i Cinque stelle. Tanto che l’economista amata dai grillini, Marianna Mazzucato, la teorica dello «Stato imprenditore» che faceva parte della task force, non firmò la relazione finale che, pare, considerava ultraliberista. Conte archiviò Colao e a chi gli chiedeva se sarebbe comparso agli Stati generali, ancora a pochi giorni dall’inizio della kermesse rispondeva: «Non ho in questo momento l’agenda di Colao, non so dire se sarà presente».

Riletta col senno di poi appare profetica una frase consegnata al Giornale da Sestino Giacomoni quando venne presentato il progetto Colao: «C’è un piano, ma non c’è la maggioranza per realizzarlo». Problema risolto.

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