Il paradosso dei ricollocamenti: così l’Italia dovrà accogliere di più

Una delle principali linee politiche sull’immigrazione da sempre sostenuta dal governo giallorosso riguarda la proposta in sede europea di una redistribuzione dei migranti all’interno del Vecchio Continente. É passato più di un anno da quando il tema è stato ufficialmente affrontato a Malta: in quell’occasione è stato sancito il principio secondo cui la redistribuzione automatica dovrebbe riguardare soltanto i migranti arrivati attraverso le navi Ong o militari.

L’incontro a La valletta in realtà non ha dato vita a nessun piano di riforma ufficiale. Ma se quanto stabilito fosse divenuto realtà ne sarebbero derivati davvero dei vantaggi per l’Italia? Quanto converrebbe attuare una riforma del genere per il nostro Paese?

La linea italiana ignorata dall’Ue

Da quando ha preso vita il governo Conte II nel settembre del 2019, uno dei cavalli di battaglia sbandierati dal nuovo programma politico sul fronte immigrazione è stato quello dei ricollocamenti. Un argomento posto al centro degli obiettivi primari da raggiungere in sede europea dal ministro dell’Interno Luciana Lamorgese che però non si è mai concretizzato nemmeno dopo la passerella di Malta. Il 23 settembre del 2019 doveva essere ricordata come una data storica in virtù dell’incontro tenutosi a La Valletta per il quale l’Europa avrebbe assunto un impegno sul sistema dei ricollocamenti automatici. I fatti successivi raccontano che di quel vertice si ricordano solo le foto di rito ma delle promesse un nulla di fatto. La conferma che quegli accordi non erano vincolanti è arrivata un anno dopo e cioè quando nel Patto europeo sull’immigrazione presentato lo scorso mese di settembre non c’era nessun cenno al tema dei ricollocamenti automatici. Uno schiaffo per l’Italia implicitamente ammesso anche dal capo del Viminale che in difesa del fallimento ha spiegato l’impossibilità di dare attuazione agli accordi di Malta è stata dovuta agli effetti del Covid.

Cosa ci dicono i dati sui ricollocamenti?

Andando a ritroso, nel 2019, in Italia sono state 35.005 le richieste d’asilo presentate dai migranti alle quali è corrisposto il 5,2% del totale delle richieste arrivate in tutta l’Unione Europea. Numeri bassi rispetto alle aspettative e rispetto anche a quelli degli altri Stati europei. É infatti la Germania il Paese con il più alto numero delle richieste d’asilo con 142.510 domande e il 21,1 % del totale della distribuzione. Al seguito la Francia con 138.290 domande e la Spagna con 115.190 richieste. Sono 74.915 quelle della Grecia e 44.315 quelle del Regno Unito. L’Italia dà inizio alla seconda parte della classifica con numeri molto più bassi. Andando ad esaminare il 2020, le richieste d’asilo nel nostro Paese rese note nelle ultime ore dal rapporto dell’Unhcr, sono 26.551. Un importante calo rispetto al 2019 nonostante il numero dei migranti arrivati via mare, via terra o aerea sia stato più alto. Questo vuol dire che l’Italia rispetto agli altri partner europei fino ad oggi ha avuto meno obblighi in tema di accoglienza umanitaria.

Le dinamiche dell’immigrazione in Europa

Gli sbarchi di migranti lungo le coste meridionali del vecchio continente costituiscono soltanto una parte del fenomeno migratorio. La più visibile e quella che desta maggior clamore, oltre che quella che ci riguarda più da vicino, ma non l’unica. Oltre alla debolezza internazionale del governo giallorosso e ad una solidarietà solo di facciata delle istituzioni comunitarie, questo è un altro motivo per il quale in sede europea non si prendono in grande considerazione le proposte italiane. Nel resto del Vecchio Continente sono altri i problemi percepiti. Lo si può vedere dalle dinamiche migratorieche interessano l’Europa. La grande maggioranza di richiedenti asilo che entrano nel continente, proviene da Paesi le cui ondate migratorie lambiscono solo parzialmente l’Italia. Nel 2019 ad esempio, secondo Eurostat sono stati afghani, siriani e venezuelani ad aver presentato nell’Ue il maggior numero di domande di asilo. I primi due gruppi di cittadini hanno maggior interesse a recarsi in Germania, i venezuelani invece puntano tradizionalmente sulla Spagna. I tunisini, che da soli nel 2020 hanno rappresentato circa il 40% delle persone sbarcate in Italia, raramente presentano domande di asilo. Ulteriore motivo per il quale le proposte del governo Conte II non riescono a scalfire la posizione dell’Ue e dei presunti partner europei.

“Attenzione ai numeri”

Le cifre e i dati degli ultimi anni sembrano quindi parlare chiaro: una redistribuzione in ambito europeo potrebbe non rappresentare un affare per l’Italia. Il nostro Paese ha un problema ben evidente nella gestione dei flussi migratori che arrivano dal mare. Questi ultimi destano maggior apprensione sociale e hanno dei costi importanti derivanti soprattutto dal dover mantenere in vita un robusto sistema di accoglienza. Ma affrontarli sperando nella solidarietà europea, oltre ad essere politicamente poco opportuno, potrebbe comportare una beffa ancora più grave: “Guardando ai numeri – ha confermato il sociologo Maurizio Ambrosini a IlGiornale.it – se dovesse essere approvato un meccanismo di redistribuzione automatica, l’Italia potrebbe ritrovarsi in una posizione paradossale”.

Il nostro Paese cioè, tenendo in considerazione i dati complessivi sugli arrivi di richiedenti asilo in Europa, rischierebbe di essere tra quelli verso cui destinare quote aggiuntive di migranti: “Da noi arriva solo poco più del 5% tra coloro che ogni anno presentano domande di asilo nell’Unione Europea – ha proseguito Ambrosini – Sono altri i Paesi che avrebbero diritto a veder ricollocati i migranti presenti all’interno del proprio territorio”. La via della redistribuzione dunque non è vantaggiosa per l’Italia. E la strada tracciata dal governo sul fronte migratorio non sembra andare nella giusta direzione.

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