Ristori, una vergognosa elemosina: coprono solo il 7% delle perdite

 La politica dei ristori si è rivelata del tutto fallimentare. “Sebbene in termini assoluti la somma sia certamente importante, i 29 miliardi di euro di aiuti erogati fino ad ora dal governo alle attività economiche coinvolte dalla crisi pandemica sono stati del tutto insufficienti a lenire le difficoltà degli imprenditori”. A dirlo è l’Ufficio studi della Cgia di Mestre.

Perché i ristori non bastano?

L’effetto dei vari ha lockdown ha colpito pesantemente le aziende italiane: le stime parlano di un mancato incasso pari a circa 423 miliardi di euro.

A fronte di questi numeri nessuno si può stupire della rabbia degli esercenti. Il comportamento avuto da Palazzo Chigi è quantomeno discutibile anche se si approvano le misure adottare per contenere la pandemia. Se un’attività viene chiusa per motivi di salute pubblica, chi viene privato della sua fonte di reddito ha diritto ad un indennizzo. Questo vale per il ristoratore ma anche per il cameriere o per il commesso del negozio.

C’è, però, un altro dato da tener presente. L’imprenditore o l’esercente (a differenza del suo collaboratore) ha delle spese fisse a cui non può sottrarsi: le bollette, l’affitto o il mutuo. Anche se non incassa deve spendere. Se i soldi che arrivano non bastano sarà costretto ad usare i suoi risparmi per mantenere in piedi un’attività che è solo fonte di perdite. Per non infierire su Conte & co. evitiamo di sottolineare che spesso la cassa integrazione per i dipendenti è stata pagata dai datori di lavoro. Solo pochi potranno permettersi il lusso di non abbassare la saracinesca.

Passare dai ristori ai rimborsi

Ecco perché la Cgia ha proposto di sostituire i ristori con i rimborsi: “In altre parole è necessario uno stanziamento pubblico che compensi quasi totalmente sia i mancati incassi sia le spese correnti che continuano a sostenere”. Certo il progetto è ambizioso, ma non possiamo più permetterci il lusso di tirare a campare.

I ristori finora sono stati un pannicello caldo. Lo Stato ha il dovere di investire. Deve solo scegliere come allocare al meglio le risorse. A chi teme per la tenuta dei nostri conti pubblici gli artigiani mestrini ricordano che “se non salviamo le imprese e i posti di lavoro, non poniamo le basi per far ripartire la crescita economica che rimane l’unica possibilità in grado di ridurre nei prossimi anni la mole di debito pubblico che abbiamo spaventosamente accumulato con questa crisi”. I timori della Cgia sono condivisi anche dall’Istituto nazionale di statistica. Basta leggersi il documento “I profili strategici e operativi delle imprese italiane nella crisi generata dal Covid-19”, pubblicato pochi giorni fa.

L’allarme dell’Istat

L’Istituto guidato da Gian Carlo Blangiardo (tra il 23 ottobre e il 16 novembre 2020) ha effettuato la seconda edizione dell’indagine rapida sulla situazione e prospettive delle imprese nell’emergenza sanitaria Covid-19, rivolta alle aziende con almeno tre addetti. Si tratta di circa un milione di imprese, con oltre 12 milioni di addetti che, nel complesso, rappresentano quasi il 90% del valore aggiunto e circa tre quarti dell’occupazione complessiva delle imprese industriali e dei servizi.

Il dato che ne è venuto fuori è drammatico ma al contempo prevedibile: a fine 2020 quasi due terzi delle aziende prese in esame risultavano ancora prive di un “chiaro quadro strategico di reazione alla crisi” e oltre un terzo, indipendentemente dalla capacità di reagire, mostrava “segni di crisi o di sofferenza operativa”. In pratica, sono a rischio 292mila micro imprese che in complesso danno lavoro a quasi due milioni di italiani. Non bisogna essere degli economisti per capire che i decreti ristori sono serviti a poco.

Molti pensano che l’impatto del lockdown sull’economia si limita alla chiusura di qualche pizzeria, l’Istat ci mostra che non è così. Siamo seduti su una bomba ad orologeria che non siamo in grado di disinnescare. Ci limitiamo a spostare le lancette in avanti (a colpi di ristori), ma fino a quando potrà durare?

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