Vaccino al coronavirus, un ospedale su quattro non potrà somministrare il siero

Pure il fiore è una presa in giro, in questa storia dei vaccini. La primula si chiama così perché è la prima a spuntare, appena neve e freddo si ritirano. Perciò l’archistar Stefano Boeri l’ha scelta come simbolo della campagna di immunizzazione: per farci credere che ormai manchi poco. «Questa volta la sua rinascita è anche la nostra. Viene a dirci che il momento è arrivato», promette lo spot del governo. Invece il momento è lontano. Pure il “V-Day” del 27 dicembre, nel quale riceveranno la prima dose del siero anti-Covid pochissime persone (l’intera fornitura ammonta ad appena 9.750 dosi), è uno spot. Come quelle inaugurazioni delle stazioni della metro che fanno i sindaci in campagna elettorale: tagliato il nastro, occorrono mesi o anni per vedere l’opera in funzione. Se tutto andrà bene, infatti, grandissima parte della popolazione italiana sarà vaccinata negli ultimi mesi del 2021. Questo perché mancano all’appello decine di milioni di fiale, a causa degli accordi siglati dalla Commissione Ue con le sei case farmaceutiche coinvolte e in particolare con i francesi di Sanofi, le cui consegne per il 2020 sono saltate.

E perché le autorità italiane e il commissario straordinario Domenico Arcuri ci stanno mettendo del loro. Dei 294 punti ospedalieri previsti per la somministrazione del siero, oggi 72, ossia uno su quattro, non dispongono delle celle Ult (Ultra low temperature), gli indispensabili “super freezer” in grado di conservare le fiale a 75 gradi sotto zero. Sui documenti di Arcuri si legge che in una non meglio specificata data «dopo il 7 gennaio» il loro numero dovrebbe arrivare a 289. Ma molte regioni sono indietro pure con le liste del personale che dovrà occuparsi delle vaccinazioni. I primi corsi a distanza per i sanitari addetti alle operazioni inizieranno oggi. Anche le dichiarazioni di Arcuri contribuiscono al caos. Intervistato sul Fatto Quotidiano di ieri, il commissario ha detto che il primo vero carico di vaccini della Pfizer sarebbe arrivato «il 30 gennaio». Ciò avrebbe significato iniziare la vaccinazione a febbraio, partendo subito in forte ritardo. È dovuto intervenire Arcuri per smentire le proprie parole riportate dal suo quotidiano preferito: intendeva dire il 30 dicembre, qualcuno si era sbagliato. Falso allarme, dunque, o almeno così pare. Al pari di quello per la carenza di siringhe, le cui forniture, garantisce Arcuri, saranno regolari. «Prepariamoci a non tollerare ritardi», avverte il malfidato Roberto Burioni.

LA TEMPISTICA
I ritardi invece ci saranno e le ragioni le ha spiegate bene la fondazione Gimbe, che è specializzata nella diffusione della cultura medica e pubblica continui rapporti sull’evoluzione dell’epidemia: «Le dosi certe sono solo poco più di 10 milioni entro marzo 2021» e aumenteranno a «22,8 milioni entro giugno 2021». Nel giro di tre mesi è previsto infatti che giungano le 8.749.000 dosi del siero di Biontech/Pfizer. Tra queste ce ne sono 450mila in arrivo tra il 28 dicembre e l’inizio dell’anno, annunciate ieri da Arcuri. Si aggiungeranno poi le 1.346.000 dosi di quello di Moderna, se il 6 gennaio riceverà anch’ esso il via libera. E siccome occorrono due dosi per immunizzare un individuo, entro marzo, nella migliore delle ipotesi, saranno stati vaccinati 5 milioni di italiani. Altre 12.787.000 dosi, fornite dalle stesse due aziende, arriveranno nel secondo trimestre, portando a 11,4 milioni il totale di coloro che riceveranno l’immunizzazione prima dell’estate. Il resto della popolazione italiana dovrà attendere.

GLI ALTRI PRODUTTORI
Gli altri produttori, infatti, sono più indietro. I vaccini di AstraZeneca e Johnson & Johnson sono in fase di revisione e nessuna delle due case ha ancora presentato i documenti per ottenere l’approvazione. La tedesca CureVac ha iniziato da poco gli studi sul livello di immunizzazione nei pazienti e la francese Sanofi, da cui aspettavamo 20 milioni di dosi entro giugno, ha comunicato lo slittamento delle consegne al 2022. Considerati i problemi con le forniture di vaccini e «il possibile impatto della variante inglese», la fondazione Gimbe avverte il governo che è «indispensabile rivalutare il piano di gestione della pandemia». Cosa che né Giuseppe Conte né Roberto Speranza hanno intenzione di fare, al momento. Tra tre giorni celebreranno il «V-Day», giornali e televisioni racconteranno che le vaccinazioni sono iniziate e si fingerà di credere che l’uscita dal tunnel sia vicina. Fin quando la lentezza dell’operazione diventerà troppo evidente per essere negata, e allora s’ inventeranno qualcos’ altro.

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