Perché nessuno parla dei pescatori italiani sequestrati in Libia?

 La notizia è grave quanto poco nitida. Diciotto pescatori siciliani, originari di Mazara del Vallo, sono stati sequestrati da dei predoni libici mentre pescavano in acque internazionali. Dal 1 settembre scorso, sono tenuti prigionieri non si sa dove e con l’accusa di esser stati trovati in possesso di droga. La fazione libica interessata sembra essere quella del generale Haftar, l’uomo forte della Cirenaica, dunque il pretendente governatore non riconosciuto dalla comunità internazionale ma sostenuto, ad esempio, dalla Russia di Putin. Egli ha fatto sapere all’Italia che i diciotto pescatori verranno rilasciati solo se l’Italia, a sua volta, scarcererà quattro scafisti libici accusati di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e di omicidio doloro plurimo per la morte di una cinquantina di immigrati lasciati soffocare nella stiva della barca che stavano conducendo presso le nostre coste.

La scusa della droga

La peggior feccia, dunque, che Haftar e i loro famigliari insistono a pretendere liberata. Già, perché sono comparse in video anche le facce di tolla dei famigliari dei quattro scafisti, i quali hanno rivendicato il diritto dei loro ragazzi ad inseguire il sogno di una vita migliore in Europa. Nel frattempo, i tribunali italiani li hanno già condannati per i reati gravi di cui sopra. Ma tant’è, e ad ognuno i suoi genitori. Da qui, una prima riflessione: se le autorità (si fa per dire) libiche della parte di Haftar avessero realmente certificato i reati di cui sono stati accusati i nostri pescatori, evidentemente non proporrebbero uno scambio in virtù del quali essi tornerebbero liberi. Insomma, se quella droga fosse stata davvero trovata e fosse stato portato a termine un processo regolare composto dagli eventuali appelli, ognuno si terrebbe i suoi delinquenti e festa finita.

Uno scambio iniquo

Dunque, lo scambio proposto ha per oggetto, da una parte degli innocenti, e dall’altra dei criminali della peggior specie. Non è alla pari, non lo sarebbe neanche se il governo italiano intendesse scendere a patti con quella feccia. E qui arriva la seconda riflessione e, come si suol dire, anche i dolori. Lo Stato italiano, ad oggi, non può che scendere a patti con Haftar e le sue bande di predoni se intende riavere i diciotto pescatori vivi e vegeti, possibilmente tutti interi. La posizione presa dall’Italia è quella di Serraj, il rivale prediletto di Haftar, anziché tentare, come già fatto in passato, il mantenimento di un equilibrio a metà tra i due in modo tale da poter essere in talune occasioni anche l’ago della bilancia in un’eventuale controversia. In questi casi, è sacrosanto tentare di avere la botte piena e la moglie ubriaca. La mediazione attraverso il canale russo, ad esempio, risulta ad oggi impraticabile a causa delle scarsissime relazioni che ormai ci legano con le altre potenze mondiali. E non si è trattato di una scelta, bensì della banale incapacità dei premier e dei ministri degli Esteri di tessere proficue relazioni di mutuo soccorso, a costo ovviamente di stringere la mano a dittatori che non hanno probabilmente letto Dei delitti e delle pene. Oggi, questa condizione di debolezza è culminata con la Farnesina guidata da Giggino Di Maio. Il suo sottosegretario, tale Manlio Di Stefano, è quello che, dopo l’esplosione a Beirut del 4 agosto scorso, dichiarò vicinanza agli amici libici, confondendoli col popolo libanese.

Calare le braghe

Dei diciotto pescatori, nessuno parla. L’esempio dato sin ora dalla politica estera italiana nel Mediterraneo racconta udi na nazione con la enne minuscola, che si piega ai ricatti della peggior feccia mondiale, escludendo l’utilizzo della forza militare anche in casi che, come adesso e come con Silvia Aisha Romano, non vedono contrapposti Stati, bensì bande di tagliagole che andrebbero banalmente annientate. Non dovremo stupirci se l’affare andrà in porto. Con i prossimi pescatori e le prossime Silvia Aisha Romano, cosa faremo? Pagheremo il riscatto, ché questa è la nuova politica estera italiana. Calare le braghe.

Lorenzo Zuppini

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