“Bella ciao” non è una vera fonte: perché dovrebbe essere obbligatorio studiarla?

La proposta di legge n. 2483, presentata dai parlamentari del Partito democratico e avente come titolo “Riconoscimento della canzone Bella ciao quale espressione popolare dei valori fondanti della nascita e dello sviluppo della Repubblica”, ha suscitato, e non poteva essere altrimenti, vivaci polemiche. Essa, come risulta dal testo reperibile sul sito internet della Camera dei Deputati, si compone di due articoli: il primo esige, da parte dello Stato repubblicano, il riconoscimento della canzone quale «espressione dei valori fondanti» del medesimo (comma 1), implicandone de iure e de facto la parificazione con l’inno nazionale (il comma 2 prevede infatti l’esecuzione di Bella ciao, dopo l’inno di Mameli, nelle celebrazioni del 25 aprile, facendo peraltro emergere l’imbarazzante, per gli estensori, parallelo con la duplice esecuzione della Marcia Reale e di Giovinezza nelle cerimonie ufficiali del periodo fascista); il secondo articolo, invece, stabilisce al comma 1 che a «decorrere dall’anno scolastico 2020/2021, nelle scuole di ogni ordine e grado», lo studio del testo di Bella ciao sia inserito (obbligatoriamente, par di capire) «nell’ambito delle attività didattiche finalizzate all’acquisizione delle conoscenze relative alla seconda guerra mondiale e al periodo storico della Resistenza e della lotta partigiana».

La legge su “Bella ciao” poggia su premesse fragili

Già a una prima lettura questa proposta di legge, nella sua duplice articolazione istituzionale e scolastica, si espone a osservazioni critiche che la stampa, almeno quella non allineata al governo, ha già messo in rilievo. A prescindere dalle motivazioni politico-culturali e ideologiche che hanno ispirato i promotori dell’iniziativa (un’ennesima riscrittura della storia contestuale alla monopolizzazione di sinistra dell’uso pubblico della memoria, diremmo), si potrebbe anche discutere, e con valida ragione, circa la solidità delle premesse storiografiche su cui la proposta si fonda.

Innanzitutto l’appartenenza di Bella ciao al “canzoniere” resistenziale è tutta da dimostrare, e gli stessi firmatari della 2483, in contraddizione con quanto scrivono al secondo comma dell’art. 1 e nel primo comma dell’art. 2, nella relazione al testo non possono fare a meno di riconoscerlo, ammettendo che è «[…] ormai comprovato […] che la canzone, così come la conosciamo oggi, non compare in nessun documento anteriore ai primi anni Cinquanta» (in particolare non compare in ben tre raccolte di canti partigiani e/o popolari) e che, infatti, solo nel 1953 (a ben otto anni dalla fine della guerra civile) Bella ciao venne per la prima volta presentata al pubblico (per di più in una rivista, non si sa quanto diffusa, di antropologia culturale).

In secondo luogo, la descrizione della canzone come «espressione», seppur «popolare», dei valori fondativi della Repubblica (senza parlare poi, per esigenze di concisione, della pretesa di farne l’espressione di «valori universali» come «la lotta patriottica contro ogni forma di prevaricazione e di abuso di potere»), è anch’essa fragile, e non solo per il carattere anodino del testo (su cui ci soffermeremo in seguito), ma per altre ragioni che, in questa sede, si possono così sintetizzare: da un lato, tale descrizione poggia sull’affermazione di un nesso inscindibile tra antifascismo resistenziale e Costituzione repubblicana che è tutto da corroborare, se non altro perché tale teoria, tenendo ben poco conto del testo e del contesto in cui fu discussa la legge fondamentale, ne evidenzia solo gli elementi di rottura con la fase storica precedente e ne cela, invece, quelli di indiscutibile continuità; dall’altro lato, essa perpetua il luogo comune del carattere popolare della resistenza antifascista, misconoscendo la teoria defeliciana della «zona grigia» e sottacendo i dati numerici e documentali che confermano la natura minoritaria e intermittente del fenomeno partigiano.

“Bella ciao”: un documento inconsistente sul piano didattico

Quello però che, dai critici della proposta di legge, non è stato sufficientemente evidenziato è il contenuto del primo comma del secondo articolo in cui, come detto, si richiede senza mezzi termini l’inserimento (pare obbligatorio, giova ribadirlo) di Bella ciao nei programmi scolastici di storia. Gli appunti da muovere qui sono numerosi e di varia natura, a partire dal fatto che, a meno di smentite, non si ricordano atti legislativi che prevedono l’introduzione (in più non opzionale) di una singola canzone “storica” nel curriculum formativo, essendo imparagonabili con questa altre normative in apparenza simili, quali quelle che richiedono l’organizzazione, nelle scuole, di iniziative in occasione del Giorno della memoria delle vittime della Shoah (legge 20 luglio 2000, n. 211) e del Giorno del ricordo delle vittime delle foibe titine e dell’esodo giuliano-dalmata (legge 30 marzo 2004, n. 92).

Vi è poi da considerare la sostanziale inconsistenza didattica della canzone Bella ciao, qualora la si voglia presentare come fonte su cui gli studenti possano validamente esercitarsi nella lettura, nell’analisi e nella comprensione di un testo da cui ricavare informazioni di carattere storiografico. Si è già precisato sopra che Bella ciao non è esattamente un testo coevo all’epoca resistenziale (e nemmeno immediatamente posteriore alla medesima), ma questa obiezione potrebbe essere respinta adducendo il fatto che, per esempio, coeva ai fatti narrati non è neppure, se non in parte, La leggenda del Piave (che fu composta nel giugno 1918, a soli pochi mesi dalla fine della guerra sul fronte italiano, e che comunque riassume con grande efficacia rappresentativa le fasi del nostro conflitto contro gli Imperi centrali). Eppure, se ammettiamo che il testo di un inno, di una canzone (o anche di una poesia) possa essere sempre utilizzato dallo storico, e da un docente di storia, come fonte (il che non è del tutto scontato), la coappartenenza all’epoca in cui si svolsero gli eventi a cui tale fonte si riferisce non è criterio così essenziale per determinarne la validità, non solo storiografica ma anche didattica. Il citato inno del Piave, per esempio, non serve solo a ricostruire, seppur sinteticamente, lo svolgimento della guerra italiana tra il maggio 1915 e il novembre 1918, quanto anche a darci, icasticamente, l’idea delle motivazioni ideali che ispirarono i partecipanti a quella guerra, di come quel conflitto fu percepito e vissuto dall’opinione pubblica patriottica del Paese. Una poesia ottocentesca come Il giuramento di Pontida di Berchet, per citare un altro esempio, non è solo utile a ricostruire le fasi della lotta medievale tra l’Impero germanico e i Comuni, quanto anche a informarci su come questa lotta fu sentita, e reinterpretata a supporto della causa nazionale, dagli intellettuali patrioti del Risorgimento. Soddisfa, allora, Bella ciao il duplice requisito che deve possedere questa tipologia di fonte testuale (sia essa musicale o solo poetica), ovvero la capacità di informare non solo sui fatti della resistenza partigiana, ma anche sul vissuto dei protagonisti e sulla percezione, o sull’interpretazione, che essi, o i posteri, ebbero, o diedero, dei fatti medesimi? Sembra arduo, nonostante le granitiche convinzioni dei firmatari della proposta di legge, rispondere affermativamente, dato il carattere vago di un testo, quello di Bella ciao, in cui (a differenza, per esempio, di un’altra canzone resistenziale come Fischia il Vento) il solo riferimento storico concreto (a parte quello al «partigiano») è a un generico «invasore», con il quale si sa che si intende il tedesco, ma che, sulla base di un ragionamento puramente storiografico e a voler essere pignoli, si potrebbe intendere (e forse a maggior ragione) anche l’angloamericano.

Educazione civica e intesa con l’Anpi: tutto si tiene

Perché dunque, al di là delle motivazioni abbozzate all’inizio, proporre agli studenti e ai loro docenti la trattazione obbligatoria di una fonte così poco produttiva sul piano didattico? Non spetta a queste righe rispondere a tale domanda, sebbene qualche indicazione potrebbe venire da due fatti che hanno caratterizzato l’inizio del presente anno scolastico (quello, per inciso, in cui la novità di Bella ciao come materia di studio dovrebbe entrare in vigore).

Il primo fatto è l’introduzione, quale nuova disciplina, dell’educazione civica che prevede, tra i suoi nuclei concettuali, proprio l’approfondimento di quella Costituzione repubblicana che la proposta legislativa vede fondata sui medesimi valori portati da Bella ciao (il che, sia lecito sospettarlo, apre interessanti prospettive a chi volesse occuparsi della canzone partigiana non esclusivamente nel corso di storia). Il secondo fatto, collegato in un certo modo al primo, è il recente rinnovo, da parte del Ministero dell’Istruzione, del protocollo triennale d’intesa con l’Anpi in vigore dal 2014, documento che prevede una stretta collaborazione tra i due enti al fine di «promuovere e sviluppare iniziative di collaborazione e di consultazione permanente […] nelle scuole e per le scuole volte a divulgare i valori espressi nella Costituzione». Tout se tient,  dunque, considerato che il protocollo in questione cita esplicitamente, tra le sue premesse, proprio la legge 92 del 2019 sull’insegnamento dell’educazione civica. Si può stare sicuri, in conclusione, che all’Associazione nazionale partigiani italiani, da sempre attiva nel ritagliarsi all’interno delle istituzioni scolastiche un ruolo egemonico che le consente di perpetuare la solita narrazione unilaterale dei fatti occorsi negli anni Quaranta del Novecento, la proposta di legge dei deputati democratici sia tutt’altro che dispiaciuta.

Italo Corradi

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