I furti dei paradisi fiscali europei all’erario italiano

Olanda, Cipro, Malta, Lussemburgo, Belgio e Irlanda: cinque Paesi che rappresentano altrettanti paradisi fiscali “occulti” all’interno dell’Unione Europea, organizzazione sinora incapace di risolvere il problema del dumping interno sulle tasse e le competizioni tra gli erari nazionali. La creazione di società di comodo, l’occultamento degli utili, il trasferimento delle sedi legali sono solo alcuni degli stratagemmi che le imprese di tutta Europa sfruttano, senza commettere illeciti in punta di diritto, per usufruire di convenienti favoritismi fiscali.

A perderci, ovviamente, gli erari di Paesi come l’Italia,che vedono deviati verso l’estero valori e profitti prodotti sul territorio nazionale e conoscono un ammanco delle risorse disponibili.

Come ricordato da Formiche in occasione del caso Campari, sul tema della fiscalità generale molto spesso sono i Paesi vittima di queste manovre hanno consentito che schemi del genere prendessero piede: “Tutto ruota intorno ai diversi trattati stipulati dall’Italia in passato al fine di evitare a un’azienda di dover pagare le tasse in due Paesi differenti ma che hanno stipulato l’accordo”. Ciononostante la situazione si è fatta molto più complessa.

Trasferire la sede fiscale è solo uno degli artifici a disposizione. Come ha spiegato Milena Gabanelli su Dataroom del Corriere della Serainfatti, la seconda manovra possibile è quella del cosiddetto transfer pricing: ” transazioni economiche (spesso fittizie) all’interno di un gruppo multinazionale (come prestiti, cessione di marchi o brevetti, servizi assicurativi), il tutto gestito da una controllata che ha sede in un paradiso fiscale”. Infine, terza e ultima strategia è quella estremamente aggressiva sfruttata dai giganti del web in Europa: fatturare nel Paese “di comodo” tutti i ricavi di un’area geografica e contribuire così a creare quella posizione dominante contro cui più volte le autorità europee si sono lanciate senza cambiare le carte in tavola.

Gabanelli cita anche il Corporate Tax Haven Index 2019, in cui si analizza come i Paesi messi sotto indagine riescano a giocare a loro favore sul fronte dei favoritismi fiscali, attraverso un complesso sistema di deduzioni e sconti che permette di abbattere il tasso reale: “L’Italia, ad esempio, ha un’aliquota del 28% che scende, al massimo dello sconto, al 26,9%. Questo è quello che succede nella stragrande maggioranza dei Paesi dell’Ue. Ma non in Belgio (dove l’aliquota formale passa dal 30% al 3%), a Cipro (dal 13% allo 0%), in Irlanda (dal 13% allo 0%), in Lussemburgo (dal 26% allo 0,3%), a Malta (dal 35% al 5%) e in Olanda (dal 25% al 2,44%)”. L’Aja spicca per i volumi in campo: nel dicembre 2018 il viceministro delle Finanze Menno Snel, braccio destro dei super-falchi Mark Rutte e Wopke Hoekstra, ha ammesso che sugli oltre 4.500 miliardi di euro transitati nel Paese nel 2016, una cifra eccedente di cinque volte il Pil nazionale, l’Olanda ha potuto esercitare la sua capacità impositiva solo su 200 di essi.

Tra i Paesi che competono con l’Italia e le maggiori economie europee sul piano fiscale andrebbe aggiunta anche l’Ungheria, che però negli anni di governo di Viktor Orban ha puntato su una strategia decisamente più diretta promuovendo un’aggressiva flat tax sui redditi delle imprese, pari al 9%. Il gioco dei “paradisi fiscali” è decisamente più subdolo, in quanto sfrutta vuoti normativi e artifici contabili.

Su di esso ha puntato il dito anche Roberto Rustichelli, presidente dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (l’antitrust italiano), in una recente audizione alla Camera dei DeputatiRustichelli non ha avuto remore a definire “paradisi fiscali” i Paesi sotto osservazione: “la concorrenza fiscale sleale genera evidenti vantaggi per taluni Paesi: il Lussemburgo, paese di circa 600 mila abitanti, è in grado di raccogliere imposte sulle società pari al 4,5% del PIL, a fronte del 2% dell’Italia”. Secondo il dirigente dell’Agcm “investimenti internazionali si adattano alla geografia della concorrenza fiscale”. Un dato impressionante sulla convenienza economica dell’elusione fiscale quantifica i dividendi che i paradisi riescono a conseguire: “l’Italia attira investimenti esteri diretti pari al 19% del PIL; il Lussemburgo pari a oltre il 5.760%, l’Olanda al 535% e l’Irlanda al 311%”.

Assieme al dumping sociale legato alla delocalizzazione di diversi impianti produttivi verso Paesi a più basso costo del lavoro (in Europa in particolare Polonia e Bulgaria) Rustichelli individua nella concorrenza fiscale sleale un grave pregiudizio alle finanze pubbliche del Paese. La stima dell’alto funzionario di Stato è che Roma perda la possibilità di incassare tra i 5 e gli 8 miliardi di dollari per la concorrenza sleale, a fronte di un giro d’affari sottratto al Paese di oltre 23 miliardi (su 290 complessivi in Europa). Siamo in un intervallo tra i 4,42 e i 7,08 miliardi di euro, in cui rientra la stima parallelamente fatta dalla Gabanelli, per la quale sono 6,5 i miliardi di euro in tasse sottratti alle casse italiane. La perdita è estremamente sanguinosa, se pensiamo che con essa si sarebbe potuta finanziare per intero una misura economica come le pensioni quota cento per un intero anno solare. Al contempo, la concorrenza fiscale sleale genera rendite di posizione rischiose per gli equilibri politici nel Vecchio Continente. Lo vediamo con l’Olanda, intenta a farsi austera paladina del fronte del rigore sui conti pubblici dimenticando quanto spesso le sue politiche accomodanti danneggino Paesi più fragili nell’Unione Europea.

il giornale.it

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