“Questa terapia è una cura contro il Covid”. Ma il ministro non ha risposto

“Ho settemila pazienti affetti da miastenia grave sparsi in tutta Italia ed alcuni si sono ammalati di Covid-19. Molti di loro erano già in terapia con cortisone e ho ritenuto utile trattarli precocemente anche con un incremento della terapia cortisonica. Quasi tutti hanno così sviluppato solo una forma modestissima di malattia, uno soltanto è stato ricoverato e nessuno è morto”.

Roberta Ricciardi, responsabile del Percorso Miastenia dell’Ospedale Cisanello di Pisa, la sua lotta contro il virus l’ha combattuta soprattutto con un “caro vecchio farmaco”, guardato con un po’ di diffidenza, ma che “sul campo” sembra aver avuto effetti positivi: “Il cortisone – racconta al Giornale.it – non costa niente, lo conosciamo benissimo ed è da sempre uno storico grande salvatore in numerose condizioni cliniche. Lo è stato probabilmente anche in questa situazione”.

L’approccio della dottoressa Ricciardi, così come altri in Italia, si basa sull’assunto che il coronavirus vada affrontato “subito”. Prima cioè che si presentino le complicanze, prima di costringere il paziente al ricovero, prima di dover ricorrere, in ospedale, ad altri presidi terapeutici più complessi come il siero iperimmune. “Il primo effetto del Covid-19 – spiega – è un’iper infiammazione che poi a cascata può produrre tutti i problemi che conosciamo, come la fibrosi polmonare, l’insufficienza respiratoria, la trombosi vasale fino alla coagulazione intravasale disseminata (CID)”. Il cortisone, che è un potentissimo antinfiammatorio, se somministrato in tempo e a dosi adeguate medio-alte, permetterebbe quindi di “bloccare la malattia a monte”, frenando la tanto temuta evoluzione dell’infiammazione. “Ho chiaramente sempre associato alla terapia cortisonica semplicemente una terapia antibiotica di copertura e un trattamento anticoagulante con Enoxaparina, per evitare le eventuali complicanze tromboemboliche possibili in questa condizione”, spiega Ricciardi. E i risultati si sono visti. “Uno di miei pazienti aveva già subito un’operazione al torace per un tumore ed era molto grave anche per l’importante insufficienza respiratoria in atto. Quando l’hanno ricoverato, mi hanno subito detto che molto difficilmente si sarebbe potuto salvare. Ho potuto però collaborare con i colleghi locali suggerendo loro di somministrargli, per alcuni giorni, una dose piuttosto elevata di cortisone. Il paziente è subito migliorato ed ora è a casa, dove ha ripreso tranquillamente il suo lavoro”.Personale Medico in un reparto Covid (La Presse)

Per questo, insieme a Piero Sestili, professore ordinario di Farmacologia a Urbino, Ricciardi ha messo a punto un protocollo per l’uso del cortisone nella pandemia da Sars-Cov-2. La terapia si basa sul “caro vecchio” medicinale, associato a un antibiotico, un antivirale e un anti-coagulante. L’intento è quello di promuovere un cambio di strategia “rispetto all’odierna prassi”: ovvero “l’adozione tempestiva e precoce, all’inizio della sintomatologia respiratoria sospetta, di una semplice terapia antinfiammatoria efficace come quella cortisonica a medio o alto dosaggio”. Secondo Sestili, infatti, ancora oggi manca una presa di posizione chiara su come muoversi da parte delle autorità sanitarie (Aifa e ministero): “Per ora il cortisone non è vietato, ma nemmeno caldeggiato. Direi che è solo tollerato. Eppure molti medici lo stanno utilizzando con effetti positivi”.

Respiratori in un reparto di terapia intensiva

Lo scorso 24 aprile Ricciardi e Sestili, dopo aver raccolto circa 50 firme di illustri colleghi, hanno inoltrato tramite Alessia Morani una lettera-appello al ministro Speranza per informarlo sui benefici della cura cortisonica. “La strategia terapeutica sulla quale ci si è fino ad ora maggiormente concentrati sia in termini operativi che di sviluppo, è quella rivolta ai casi più gravi della malattia e all’implementazione dei reparti di Terapia Intensiva – si legge – Questo approccio, pienamente giustificato dall’urgenza e dal precipitoso evolversi della pandemia in Italia, non può però perdurare in attesa della disponibilità di un vaccino o di un antivirale specifico che non sono purtroppo ancora disponibili e che potremmo non avere in tempi brevi”. La missiva è stata consegnata anche a Pierpaolo Sileri. “Il viceministro mi ha ringraziato – spiega Ricciardi – dicendomi di averlo ‘messo agli atti'”. Ma risposte chiare, per ora, non ne sono arrivate. Anzi: l’Aifa ad oggi suggerisce di operare prima un contenimento della carica virale e solo successivamente di agire con gli anti infiammatori come il cortisone. “Secondo la nostra esperienza – scrivono gli esperti – è invece proprio in queste fasi iniziali che andrebbe intrapreso il contenimento farmacologico dell’infiammazione per evitare che i suoi danni si accumulino, trascinando alcuni pazienti in quella grave condizione poi difficilmente rimediabile”.Il ministro della Salute, Roberto Speranza

Certo, va considerata la diffidenza di alcuni verso il cortisone a causa del suo effetto immunosoppressivo: se il virus è attivo, somministrare un farmaco che riduce le difese immunitarie potrebbe apparire un controsenso. “Si tratta di un problema secondario, perché la terapia in questo caso va seguita solo per pochi giorni e non c’è quasi tempo per produrre una consistente immunosoppressione – assicurano Sestili e Ricciardi – Il beneficio nel bloccare la risposta infiammatoria anomala, invece, arriva praticamente subito. E il gioco vale la candela”. In fondo ne sono una testimonianza i tanti pazienti con malattie autoimmuni, come la miastenia, che da anni assumono il farmaco senza grosse controindicazioni.

Ora che l’emergenza è superata, secondo i firmatari è arrivato il momento per rivedere il paradigma di azione. “Il Covid-19 bisogna pensarlo come una brace che cova all’interno dell’organismo, più che a un candelotto di esplosivo”. Sedimenta, brucia sotto la cenere, lascia il tempo per agire. Poi però a un certo punto divampa in un incendio. “Bisogna fare in modo di non essere costretti a spegnerlo con una terapia che ancora non abbiamo – conclude Sestili – Un conto è far venire i pompieri, un altro è prevenire la fiammata”. Nei primi giorni dell’epidemia, invece, l’invito delle autorità era quello di “non andare al pronto soccorso”. Così migliaia di persone sono rimaste in casa, hanno assunto solo tachipirina, si sono aggravate tra le mura domestiche arrivando in ospedale con il quadro clinico ormai compromesso. Molte di loro sono morte senza più aria nei polmoni. Per evitare di ripetere lo stesso errore, dicono i firmatari dell’appello, basterebbe “implementare una strategia volta a contenere anche i sintomi anziché ad attenderne l’evoluzione”. Ma per ora il ministero non ha risposto.

il giornale.it

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