In Germania qualcosa si muove

La leggenda dell’Europa divisa tra laboriose formiche nordiche intente ad accumulare risorse (leggasi surplus di bilancio) in previsione di tempi duri e pigre cicale mediterranee caratterizzate da cronica indolenza e leggerezza nella gestione dei propri conti economici è talmente caricaturale da rendere assurda la sola ipotesi che potesse trasformarsi in una chiave di lettura accettata. Eppure, nell’ultimo decennio, troppo spesso così è stato: in Germania, in Olanda, sia nel mondo politico che in quello mediatico, lo stereotipo degli “italiani fannulloni” è stato preso a pretesto per giustificare lo stop a politiche redistributive in campo comunitario e perorare la causa dell’austerità.

Ma troppo spesso anche in Italia il mito ha fatto breccia: i lettori di più lungo corso della stampa nazionale ricorderanno gli infiniti appelli a prendere consapevolezza di aver vissuto “al di sopra delle nostre possibilità” per decenni, pronunciati con particolare enfasi in occasione della transizione tra il governo Berlusconi IV e il governo Monti nel 2011 e negli anni successivi. Logico corollario di questa tesi era che le imposizioni economiche e politiche di matrice europea, il cosiddetto vincolo esterno, dovessero intervenire a frenare dei vizi atavici degli italiani, spendaccioni e poco lungimiranti.

A tirar troppo la corda può finire che si spezzi. E proprio la stampa tedesca da tempo si è resa conto di questo errore, che ha finito per animare una crescente sfiducia dei cittadini italiani nei confronti della Germania e dell’Unione europea. Mano a mano, poi, che si prendeva consapevolezza della realtà dei fatti, e cioè che la “spendacciona” Italia risultava una contributrice netta alle politiche di quell’Europa che si comportava da censore nei suoi confronti la tesi della dialettica cicale-formiche è risultata insostenibile.

A fine aprile era partito lo Spiegel, il settimanale più letto della Germania, ricordando che l’atteggiamento punitivo seguito per anni dalla Germania verso i Paesi del Sud Europa rischia di aver effetti deleteri sulla tenuta dell’Unione europea e di accelerare un processo di disgregazione di portata continentale. Più recentemente, invece, la Frankfurter Allgemeine Zeitung, il quotidiano di riferimento del mondo imprenditoriale e affaristico, ha preso una posizione altrettanto netta. Ralph Bolmann, vicedirettore della sezione economia della Faz, ha pubblicato un inequivocabile editoriale in cui sostiene che sia un errore di prospettiva pensare, in Germania, che misure allo studio dell’Unione come il Recovery Fund portino “il Nord” Europa “a pagare per il Sud”, formando la percezione che così sia stato anche durante la crisi dei debiti sovrani del 2010-2012.

Nulla di più errato, sostiene Bolmann, e il paragone con la crisi dei debiti è fuori luogo. “Durante la crisi dell’euro, i governi italiani non hanno ricevuto nemmeno un centesimo di aiuti finanziari. Al contrario: hanno versato 125 miliardi di euro per quegli Stati della zona euro che erano al verde”. Verità troppo spesso dimenticata: il contributo italiano, in proporzione, non è da meno dell’esborso tedesco da 190 miliardi di euro in quanto a rapporto con popolazione e Pil. E così, con ogni probabilità, sarà anche nella risposta alla crisi del coronavirus. Come ha sottolineato l’economista italiano Guido Salerno Aletta, l’Italia potrebbe incrementare i propri contributi al bilancio Ue fino a un livello tale da compensare ampiamente le entrate previste con i piani a fondo perduto del Recovery Fund allo studio della Commissione. Ma se anche così non fosse, spiega Bolmann, la Germania non potrebbe lamentarsi perché Roma contribuisce comunque a circa il 12% del bilancio comunitario, ha subito per prima e con maggior durezza l’impatto del Covid-19 ed è strategicamente fondamentale per filiere dell’industria di Berlino come quella dell’auto: ” Soltanto la Volkswagen importa fino a 20.000 prodotti singoli da aziende italiane. Nel nord benestante del paese esiste una fitta rete di piccole e medie imprese di successo, delle quali non poche sono leader mondiali nel loro settore”.

In Germania, in fin dei conti, molti si stanno accorgendo che spingere con forza sulle faglie interne all’Unione rischierebbe di accelerarne la disgregazione. Cosa che Berlino, forte della sua centralità geoeconomica, non intende fare. Angela Merkel, forte dell’asse franco-tedesco, ha capito che forzare la mano su austerità e rigore in questa fase non serve: l’isolamento di falchi ultra-rigoristi come l’Olanda in questo contesto è funzionale a evitare una rottura traumatica che potrebbe travolgere l’economia italiana e, di conseguenza, quella tedesca. Meglio tardi che mai, diciamo noi: e cosa penseranno e come si adatteranno commentatori e opinionisti nostrani che troppo a lungo, con soddisfazione, riproponevano il mantra del vincolo esterno pur sapendone l’assoluta strumentalità e l’assenza di aderenza con la realtà?

il giornale.it

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