Silvia Romano, altre ombre sulla Onlus Africa Milele: “Un fiume di soldi investiti nel nulla”

Roma, 21 mag – Ancora ombre sulla Africa Milele, la Onlus marchigiana che spedì in Africa Silvia Romano; e ombre anche sul villaggio di Chakama, dove la stessa fu rapita da un commando di sequestratori di Al Shabaab. A gettarle stavolta è Gianfranco Ranieri, imprenditore e «veterano» del Kenya e presidente della Karibuni Onlus, intervistato oggi dal Giornale.

Ranieri è decisamente uno che «li aiuta a casa loro»: da anni è attivo nel Paese africano con una serie di iniziative umanitarie quali la costruzione di scuole che ospitano più di 5mila ragazzi, la coltivazione e produzione di alimenti, la preparazione di team medici e altre attività. E secondo quanto riferito dal quotidiano diretto da Sallusti, avrebbe definito la situazione del piccolo villaggio di Chakama «un puttanaio». Non tanto riferito al luogo in sé, «perché Chakama è uno dei tantissimi che ci sono in Kenya, povero», spiega. «Con puttanaio mi riferisco a una situazione precisa sulla quale mi pongo una domanda e cioè: perché in tutti questi anni ci sono state alcune Onlus italiane, private, che hanno concentrato la loro voglia di solidarietà proprio su questo villaggio? È una cosa strana, perché non è che Chakama sia più povero o più problematico di altri villaggi».

Ranieri proprio non riesce a spiegarsi il perché di questi investimenti, di questo fiume di soldi indirizzato proprio su quel particolare villaggio. Un fiume di soldi che non ha prodotto grandi effetti in termini di infrastrutture create a beneficio della popolazione locale: «Sono stati spesi tanti soldi, ma non si capisce per cosa, visto che oggi nel villaggio è rimasta una piccola scuola costruita da italiani ma presa in carico dal governo kenyota perché altrimenti sarebbe stata chiusa; poi ci sono alcuni bambini sostenuti da una signora italiana. Orfanotrofi non mi risulta che ce ne siano. Mi dica lei se c’è da esserne orgogliosi», racconta. «Sono dunque soldi che sono stati spesi male, senza una logica, senza un controllo, senza un qualcosa che potesse giustificare questa attenzione, questi impegni, queste raccolte fondi, perché ce ne sono state diverse in Italia per progetti orientati su questo villaggio». La parola «puttanaio», ribadisce, non è quindi riferita alla gente di Chakama, «ma a questa stranezza. Ci sono stati anni in cui tutti gli italiani andavano a Chakama ma non si capiva per fare cosa».

Sul sequestro di Silvia ha una opinione ben precisa: «Silvia è capitata lì per caso; è successo a lei perché era lì in quel momento, ma poteva capitare a chiunque», sostiene. Il rapimento, invece, non è stato frutto di improvvisazione, i rapitori «tenevano d’occhio la situazione; io ne ho visti di questi ragazzi di etnia “Orma” (pastori nomadi originari della Somalia ma insediatisi da tempo in territorio kenyota), tutti molto giovani, erano sia a Malindi che a Chakama. Magari avevano qualcuno nel villaggio che controllava la situazione e vedendo una persona sola si sono mossi». E avanza l’ipotesi di «un meccanismo già attivo e programmato da tempo. Un’azione del genere non si improvvisa. Tra l’altro a Chakama non c’è neanche il posto di polizia e questo loro lo sapevano».

Critiche anche riguardo l’attività di Africa Milele, che settimana scorsa è stata fatta oggetto di un blitz da parte delle forze dell’ordine proprio nel merito del sequestro di Silvia Romano: «bravi a fare marketing via web, via social, però cose concrete se ne sono viste poche», attacca portando l’esempio della sua Onlus: «con quello che produciamo diamo da mangiare a mille e duecento persone. Loro facevano giocare i bambini, ma questo non è un progetto sociale di cooperazione. I bambini africani sono talmente abituati a non avere nulla che giocano tranquillamente da soli con quello che trovano», spiega. «Poi sui costi, mandare a scuola un bambino per un anno costa un centinaio di euro; il pasto di un bambino costa sui 40 centesimi di euro. Sarebbe sufficiente andare a vedere i bilanci e chiedere con una certa somma cosa si è fatto, quanti bambini sono stati mandati a scuola, quanti bambini hanno mangiato». Ancora ombre sui bilanci quindi. «Occupandomi del settore, mi dà fastidio che si parli della cooperazione italiana in quel modo lì (Africa Milele) quando ci sono fior di organizzazioni che lavorano in modo serio. Non è un’immagine piacevole per l’Italia e se ne sta tra l’altro parlando tanto su giornali e telegiornali».

Cristina Gauri

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