Lo studio che apre alla fase due: “I bambini sotto i 10 anni non diffondono il virus”

Sono tanti gli studi di questi mesi sul coronavirus ma ce n’è uno proveniente dall’Islanda che potrebbe essere fondamentale per organizzare la fase 2.

I ricercatori hanno condotto delle analisi sulle possibilità di contagio da Covid-19 ed è emerso che i bambini sotto i 10 anni non sarebbero dei vettori rilevanti.

Da oltre due mesi, il pianeta è stretto nella morsa della pandemia e i contagi hanno ormai superato 2 milioni di unità. Numeri elevati ma, per fortuna, non ancora eccessivi e controllati, anche se gli studiosi sono concordi nell’ipotizzare che il numero di contagi effettivi possa essere molto più elevato se si potessero includere nel computo gli asintomatici e coloro i quali non hanno fatto ricorsi a tamponi e ospedalizzazione. Dai dati raccolti in questi mesi emerge che i soggetti maggiormente a rischio sono gli uomini, mentre donne e bambini hanno meno possibilità di contrarre il nuovo coronavirus. In tal senso, i numeri sono molto chiari, perché tra i bambini sotto i 10 anni che hanno presentato sintomi da Covid-19, solo il 6,7% di loro ha contratto la malattia. Circa la metà rispetto agli adulti, dove la percentuale cresce fino al 13,7%.

L’incidenza di contagiati cresce all’aumentare dell’età nei soggetti sopra i 20 anni e c’è una discrasia numerica ancora maggiore se si considerano i controlli a campioni effettuati sugli asintomatici. Su 800 bambini sotto i 10 anni non sono stati registrati casi di Covid-19 mentre su 12.000 ragazzi sopra i 10 anni, solo 100 sono risultati positivi. A questi risultati si affianca quello della contagiosità, che nei bambini under 10 non sarebbe rilevante a fini statistici. I dati dello studio islandese sarebbero in linea con quelli di uno studio cinese e potrebbero risultare determinanti per la decisione di riaprire le scuole già nelle prime settimane della fase 2. Questa ipotesi è suggerita da Antoine Flahault, direttore dell’Istituto di salute generale all’ università
di Ginevra.

Lo studio è frutto del lavoro dei ricercatori dell’Università di Reykjavik, finanziato dalla deCode Genetics-Amgen, società privata leader nel settore dell’interpretazione dei dati per la comprensione del legame tra genoma e predisposizione alle malattie. Lo studio è stato pubblicato lo scorso 14 aprile sul prestigoso New England Journal of Medicine ed è stato ripreso in prima battuta da Le Monde, che ha aperto a nuovi scenari nel breve termine. Va specificato che lo studio è stato condotto su campioni esclusivamente islandesi e ha coinvolto il 6% della popolazione, circa 22.300 persone ed è quello su più ampia scala condotto finora in Islanda. Il Paese ha avuto finora circa 1.700 casi e il paziente zero è stato individuato in un soggetto rientrato dal Nord Italia il 28 febbraio.

I test dell’università sono stati condotti in tre fasi, con partenza il 31 gennaio. Lo screening primario ha coinvolto circa 9.200 persone considerate ad alto rischio che presentavano sintomi, soggetti di ritorno dall’estero e soggetti che avevano avuto contatti con infetti. Solo successivamente si è passati all’analisi degli islandesi asintomatici, che su base volontaria si sono presentati per essere sottoposti ai test, condotti dal 13 marzo al 1 aprile. Sono stati 10.800 circa i soggetti che si sono iscritti allo screening di questa fase. La terza fase è stata condotta dal 1 aprile al 4 aprile su circa 2.300 individui. Come ci si aspettava, l’incidenza percentuale dei contagiati è stata maggiore sui soggetti a rischio controllati durante lo scrrening mirato. I dati dicono che il 13% dei soggetti attenzionati nella prima fase è risultato positivo, contro lo 0,8 e lo 0,6 percento degli scaglioni di controllo successivi. In generale, ben il 43% degli asintomatici è risultato positivo al coronavirus.

il giornale.it

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