Coronavirus, ultimo orrore cinese: cosa fanno per trovare la cura al Covid-19

L’allevamento è nel cuore della Cina, e incute tutto tranne che pensieri zen. Si sviluppa nel dedalo d’un laboratorio frequentato da aguzzini e con norme igieniche -diciamo- opinabili: dalle gabbie si levano zaffate di sangue e piscio, e i rantoli terrificanti dei plantigradi stesi sul tavolaccio tagliano l’aria ad intervalli regolari.

Drogati, in una cattività che li rende vegetali, gli orsi vengono perforati, ad altezza cistifellea, da un tubicino da cui gli aguzzini estraggono il benedetto Ta Re Qing, ossia dosi fluviali di bile come fosse il travaso di un vinello d’annata. Il trattamento, h24, per le bestie tenute appositamente vive e coscienti, è dolorosissimo. Un’aberrazione. Però pare sia un toccasana per sconfiggere il Coronavirus. Almeno così afferma, senza alcuna evidenza scientifica, la secolare medicina cinese supportata dalla Commissione Nazionale per la Salute Cinese che spassionatamente consiglia la bile di orso vivo nei documenti ufficiali (COVID-19 Diagnosis and Treatment Plan- 7th Trial Version) per la cura di polmoniti e infezioni respiratorie da Covid19. “E’ un elemento che rappresenta un certo livello di preoccupazione per tutti; e questi allevamenti di orsi per la produzione della bile sono dei posti in cui l’orso viene esclusivamente tenuto in vita per produrre bile. Un metodo cruento e doloroso. Chi ha l’opportunità di visitare queste strutture -come è capitato a me- non può uscire che con un forte senso di sconforto”, così denuncia, da Bangkok, in un’intervista a Pietro Capella di Pop Economy, Giovanni Broussard, Project Manager Asia del programma globale per la lotta contro i reati ambientali e animali dell’Agenzia delle Nazioni Unite Unodc. Broussard è uno dei tecnici Onu inviati non solo nel fetore fisco e morale degli allevamenti d’orsi; ma è uno che usa addentrarsi nell’inferno del traffico illecito di animali a volte acquistati per scopo alimentare, altre per fini pseudoscientifici. “In Cina uno dei farmaci per la cura del Covid19, nell’ambito della medicina tradizionale cinese, contiene come principale agente l’UdcA che è presente nella bile dell’orso Moon Bear. L’aspetto tragicamente ironico di tutto questo è che per curare una malattia zoonotica venga utilizzata una medicina a cura animale; cioè si utilizza un animale selvatico seppure in cattività per combattere delle malattie che sono conseguenze di queste pratiche…”. Insomma, il Covid19 prodotto da un pipistrello forse mangiato vivo dovrebbe essere sconfitto da un estratto d’orso tenuto in vita. Certo, oggi la Cina ufficialmente toglie i cani dalla lista degli animali commestibili, ma è una goccia nel mare. Broussard spiega che un altro traffico ai limiti del lecito riguarda il pangolino “un piccolo formichiere ricoperto di squame che andava fortissimo al mercato di Wuhan, l’unico mammifero selvatico, oltre al pipistrello dove è stata rilevata la possibilità di essere infettati da un virus affine all’attuale SARS-COV-2”. Il funzionario aggiunge che il rischio sanitario è altissimo quanto “la possibilità di uno spillover ovvero del salto di specie di un virus, dall’animale all’uomo, così come è successo per il covid-19” diffusosi proprio da un wet market, da un mercato all’aperto di animali commestibili vivi della città cinese di Whuan.

Sempre secondo Broussard in realtà, paradossalmente, con l’emergenza del Coronavirus, il mercato delle bestie selvatiche sta andando fuori controllo. La Cina, il Vietnam e l’Asia in genere rimangono l’epicentro dei massacri. “Negli ultimi anni abbiamo visto un’esplosione del traffico animale di specie selvatiche tra l’Africa e l’Asia. In Africa, ogni anno, c’è una perdita di circa 15mila elefanti dovuta al bracconaggio che fornisce un mercato di zanne e di avorio in Asia, laddove anche la richiesta di corna di rinoceronte porta ad una strage degli stessi animali delle Savana. Strage che, per esempio, in Sudafrica in meno di cinque anni è passata da poche decine a qualche migliaio di esemplari” continua il funzionario “specificatamente in Asia, abbiamo visto confische di oltre 45mila volatili, 3800 orsi e vari parti (dalle zanne alla pelliccia) di tigri. Esiste lì, bisogna dirlo un giro di specie selvatiche che risulta legale, ed è regolamentato da una convenzione internazionale, la Cipes, che è in vigore dal 1975…”. Broussard fotografa una realtà oscura alle cifre ufficiali. In Europa il commercio di specie di flora e fauna protetta e dei loro prodotti derivati raggiunge la stima di circa 100 miliardi di euro all’anno. Nella sola Italia il traffico illegale è stimato in 2 miliardi di dollari ed è in crescita, come del resto in tutto il mondo. Specie in Cina, come al solito. Dovremmo chiedere ai cinesi di mettere un po’ d’ordine, a cominciare dal loro concetto di civiltà animalista. Poi, il resto, Coronavirus compreso, potrà venire da sé…

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