“Aborto a domicilio fino a 9 settimane di gestazione”. L’appello di sinistra e Ong

Roma, 9 apr – Una deroga alla legge 194 sull’interruzione di gravidanza che permetta alle donne di abortire entro la nona settimana anziché la settima e perché possano fare maggiormente ricorso all’aborto farmacologico con approccio “fai-da-te” con l’assunzione del mifeprostone, meglio conosciuto come pillola RU486, a domicilio. E’ quanto stanno chiedendo a gran voce le associazioni ginecologiche italiane congiuntamente a esponenti politici della sinistra, decine di Ong e associazioni femministe e pro-aborto, che nei giorni scorsi hanno firmato un appello al ministro della Salute Speranza segnalando come diverse donne stiano incontrando “difficoltà ad accedere ai servizi di interruzione volontaria di gravidanza” rischiando di “superare i limiti temporali entro i quali la Legge 194/78 prevede il diritto di interruzione”.

I soliti noti

Un chiaro tentativo di “forzare la mano” sulle procedure per renderle più accessibili utilizzando l’eccezionalità del momento, declinabile sia dal punto di vista medico-sanitario, sia emotivo. In un momento in cui l’attenzione è tutta rivolta al contrasto del contagio, infatti, a nessuno verrebbe in mente di sollevare questioni e di analizzare seriamente i pro e i contro di una proposta che ai più potrebbe quasi sembrare “ragionevole”. Ed è proprio tra queste pieghe che si incunea il progetto. Tra i primi firmatari dell’appello, guarda caso, ci sono gli immancabili Roberto Saviano, l’ex presidente della Camera, Laura Boldrini, l’ex ministro dell’Istruzione Valeria Fedeli, l’ex ministro della Salute, Livia Turco, il radicale Marco Cappato, e personaggi dello spettacolo e i cosiddetti intellettuali legati alla sinistra.

La voce delle associazioni dei ginecologi

In questa fase di emergenza in cui vi è la necessità di riservare i reparti ospedalieri e il grosso del relativo personale ai malati di coronavirus, gli aborti volontari vengono infatti paragonati ad “interventi di routine” e quindi posticipati alla fine dell’epidemia di Covid-19. Secondo i firmatari sarebbe utile decongestionare le strutture e alleggerire il lavoro degli operatori medico-sanitari. “In questo momento storico – spiega Antonio Chiantera, presidente della Società Italiana di Ginecologia e Ostetricia – riteniamo doveroso tutelare la salute e i diritti delle donne, attuando le procedure ritenute giustamente indifferibili, e al contempo ponendo in essere tutte le misure utili a contenere e contrastare il diffondersi della pandemia”.

Per Nicola Colacurci, presidente dell’Associazione Ginecologi Universitari Italiani, si tratta di ridurre al minimo le procedure per limitare maggiormente l’accesso alla struttura ospedaliera, evitando così contatti potenzialmente rischiosi: “Il percorso tradizionale dell’aborto chirurgico, che prevede numerosi accessi ambulatoriali espone la donna a un numero eccessivo di contatti con le strutture sanitarie, che sicuramente” in questo periodo di emergenza “non contribuiscono alla riduzione del rischio di contagio”.

L’aborto a domicilio diventerà prassi?

Non è del tutto chiaro se la richiesta di questo snellimento procedurale sia limitata all’emergenza o diventerebbe prassi: ma la presenza, tra i firmatari dell’appello, della rete europea di Planned Parenthood, il franchising degli aborti che conta centinaia di sedi negli Stati Uniti, desta più di un sospetto. La stessa azienda che la Commissione giustizia del Senato degli Stati Uniti d’America ha incriminato con formale denuncia all’FBI, per la vendita dei feti e degli organi dei bambini abortiti. Bisogna agire con urgenza per garantire assistenza all’aborto nel corso della pandemia”, ha dichiarato Leah Hoctor, direttrice regionale europea al Centro per i diritti riproduttivi. L’aborto va riconosciuto come diritto “essenziale”, da praticare a domicilio, in quanto “la crisi sanitaria ha colpito i servizi sanitari riproduttivi in ospedali e cliniche, a causa della carenza di personale, dei trasferimenti e degli operatori destinati a mansioni legate al coronavirus”.

Cosa cambierebbe

Tradotto in termini pratici, quindi, il limite temporale dell’interruzione verrebbe spostato da 7 settimane a 9; verrebbe eliminata “la raccomandazione del ricovero in regime ordinario dal momento della somministrazione del mifepristone al momento dell’espulsione”; si introdurrebbe il regime ambulatoriale, che consta di un unico passaggio nell’ambulatorio ospedaliero o in consultorio, con l’assunzione del mifepristone, e la somministrazione a domicilio delle prostaglandine. La procedura di monitoraggio che coinvolge i ginecologi avverrebbe tutta da remoto, monitorizzata da servizi di telemedicina.

L’attacco di Pro Vita

La proposta ha provocato il durissimo attacco dell’associazione Pro Vita e Famiglia. “Ma come? I radicali e la Bonino non avevano combattuto estenuanti battaglie per far terminare gli aborti in casa che causavano la morte anche delle donne e adesso invece chiedono un ritorno al passato? Un rischioso precedente che appare inconciliabile con lo spirito della legge stessa e con la salute della donna“, attacca Jacopo Coghe dalla sua pagina Facebook. “Questi esperti da divano nemmeno si rendono conto di quanto sia pericolosa per la salute delle donne la pillola RU486, più rischiosa di un aborto chirurgico e per questo il servizio sanitario la somministra in regime di day hospital”.

Cristina Gauri

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