Lo sfogo dell’infermiera su Conte: “Ci considera eroi? Ci dia le mascherine”

“Di mascherine ce ne consegnano una a testa, per tutto il turno. Quando arrivi in ospedale trovi quelle di tipo FFP2 dentro una busta, una per ogni operatore presente. La indossi e poi non puoi più cambiarla”.

La voce di Emma è stanca, ma decisa. Da giorni è tra i tanti infermieri che combattono in prima linea il coronavirus. Assiste i pazienti, li aiuta quando necessitano del “casco” con ventilazione assistita, controlla i valori di saturazione, la temperatura, cerca di sostenerli come può nella loro “solitudine mai vista prima”. Emma sa che il suo lavoro, insieme a quello dei medici, è essenziale per il Paese. “So di rischiare”, dice, “ma non mi tiro indietro”. Quello che proprio non le va giù, è la retorica di chi ne decanta il coraggio senza fornire sostegno adeguato: “Lo dico anche al premier Conte. Mi considera un eroe? Allora mi dia le armi per combattere questa battaglia”.

Emma – il nome è di fantasia per garantirle l’anonimato – lavora al Policlinico Tor Vergata di Roma, una struttura “sovvertita” interamente per essere trasformata nel “Polo Covid” del Lazio. Per ora, spiega, “ci sono 36 letti nel reparto di malattie infettive dedicate al coronavirus, 20 in pneumologia più altri 14 posti in terapia intensiva”. L’obiettivo è quello di arrivare quasi a duecento, ma chi lavora all’interno spera che l’aumento dei ricoveri vada di pari passo con una migliore organizzazione. “Non possono mandarci con i sassi contro i carri armati. Qui è il caos. Se vogliamo fermare il virus, devono fornirci protocolli chiari, farci formazione, aggiornare le disposizioni ormai superare e garantire mascherine in maggiore quantità”.Medici e infermieri: “In ospedale ci sono autostrade per il virus”Anche perché, altrimenti, il rischio è che gli “eroi” si trasformino in untori. “Lavoriamo a contatto con gli infetti. Se sbagliamo una semplice manovra, anche solo a toglierci i guanti, rischiamo il contagio. Una mia collega di Pronto Soccorso se l’è beccato, forse broncoaspirando un paziente: quando tutto è cominciato, si usavano solo mascherine chirurgiche non filtranti”. I dati ad oggi parlano di 6.205 sanitari positivi al coronavirus, il 9% del totale nazionale, una potenziale autostrada di diffusione per il virus. “Siamo costretti a lavorare finché non arrivano i sintomi. Ma questo non significa che non possiamo trasmettere la malattia”. Di mascherine FFP3, le più efficaci, non se ne vede l’ombra da inizio marzo. Quelle disponibili sono contate. E l’elastico che le tiene attorno al viso “è attaccato con due spillette”. “La cosa più grave – insiste Emma – è che secondo le disposizioni dobbiamo riutilizzare la stessa mascherina anche se siamo costretti a toglierla per qualche minuto”. Magari serve soffiare il naso, prendere un caffè, mangiare qualcosa. “La tolgo facendo attenzione a non toccare la parte frontale con le mani, la appoggio da qualche parte e poi la rimetto”. Alla fine la indossa anche per “otto o dieci ore di fila”, sebbene le indicazioni dell’Iss dicano che le filtranti possono essere utilizzate “fino a quattro ore al massimo” e che sono, “per certificazione“, prodotti “monouso”. L’obiettivo dichiarato è quello di non sprecare un bene ormai diventato prezioso. Il policlinico, ha spiegato il commissario straordinario in una nota, ha l’obbligo di “attenersi alle raccomandazioni regionali” sulla razionalizzazione dei Dpi. L’emergenza però è tale che, in questo momento, pensare al risparmio delle mascherine suona stonato.Mascherine assenti o non a norma: “Medici e infermieri a rischio”A Tor Vergata peraltro parte del personale “è stato preso dalla chirurgia e gli è stato affidato un intero reparto infettivo Covid”. Mica semplice, per chi non è abituato a lavorare coi virus. Va bene seguire le solite norme igieniche, ma per questo nemico serve una formazione minima e adeguata. “Quando sono iniziati ad arrivare i ventilatori – spiega Emma – venivano inviate le fotografie sul gruppo WhatsApp per spiegare come montarlo”. Lo stesso dicasi per la vestizione con l’ormai nota tuta idrorepellente: “La formazione sa come ce l’hanno fatta? Hanno spiegato come indossare gli abiti agli infermieri del primo turno, poi è stato un passaparola. Io spero di seguire le procedure correttamente, ma come faccio ad esserne sicura?”.

L’insicurezza sul lavoro si traduce in paura. Soprattutto quando si smonta dal turno e si torna a casa col timore di portare con sé l’infezione, magari rischiando di trasmetterla a parenti, pazienti o vicini. “Ho passato un mese d’inferno. Mi sedevo al tavolo e piangevo da sola. Siamo schiacciati da responsabilità enormi verso la collettività”. Emma non vede i genitori da un mese, dorme da sola, si sveste appena torna a casa, lava tutti i vestiti e si fa una doccia nella speranza di lasciare il virus fuori dalla porta. Lontano da figlio e marito. Quando le hanno raccontato dell’infermiera che a Monza si è suicidata, le è venuta “la pelle d’oca”, perché in quel gesto vede la sofferenza di tanti colleghi che “soffrono di crisi depressive”. È per questo che si rivolge al governo, chiedendo strumenti di lavoro adeguati. “Il mio è uno sfogo, più che una denuncia. Ma a tacere non ce la facevo più”.

il giornale.it

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