Niccolò ora ci fa la morale: “Il vero virus è il razzismo, voglio tornare in Cina”

Roma, 3 mar – Molti di voi ricorderanno la storia di Niccolò, diciassettenne bloccato per ben due volte a Wuhan dalla febbre giunto alla fine, dopo molte peripezie e grazie agli sforzi del governo italiano, di nuovo a casa. Non prima di essere stato ricoverato, per precauzione, nell’ospedale romano Lazzaro Spallanzani. Adesso, però, Niccolò ci fa la ramanzina: in Cina va tutto bene, si mangia, si beve, si viaggia – e allora perché non ci torna, già che c’è?

“Il vero virus è il razzismo”, che originalità

“Tornerò in Cina. Quante stupidaggini. I miei genitori ospitanti, Li Jun e Jiang Xian Xian, bevevano vino veneto. Il virus non ha colori e non guarda in faccia nessuno. C’è un virus più pericoloso, ed è quello del razzismo”: Niccolò è stato dimesso nella tarda mattinata di sabato dallo Spallanzani di Roma (quell’ospedale che ha negativizzato il virus in due pazienti cinesi di Wuhan che hanno pensato bene di venire a Roma), e a La Repubblica ci racconta della vita meravigliosa che conduceva, di quanti pregiudizi noi cattivi italiani abbiamo nei confronti dei cinesi e di come desideri tornare.

La scuola cinese un faro di civiltà

“Altro che involtini primavera e biscotti della fortuna: nella Cina che ho visto io non esistono. Invece ogni venerdì mi facevano trovare i ramen con la carne e l’anatra alla pechinese, come forse sapete ha bisogno di qualche giorno di preparazione. A scuola avevamo tre turni: sveglia per me alle 5.45, studio fino alle 20.10 con vari break. Più stancanti le cinque ore consecutive in Italia” dice Niccolò, distruggendo il sistema scolastico italiano paragonandolo a quello cinese. “La professoressa Yu ha seguito il nostro percorso, quasi un’amica. Ho anche viaggiato tanto, sono andato sulla costa, a Dalian. E peccato per quello che è successo dopo, avevamo in programma con la famiglia ospitante un altro viaggio, a Shanghai”; non c’è che dire, Niccolò ha senz’altro avuto delle possibilità (anche economiche) decisamente migliori rispetto a quelle dei suoi coetanei e connazionali.

L’idillio di Wuhan

Per il Capodanno cinese, Niccolò ha avuto la “fortuna” di essere portato dalla sua famiglia ospitante proprio nella provincia di Hubei, dove c’è l’”epicentro” del coronavirus, la città di Wuhan: “Una realtà di cento anni prima. Un villaggio di 50 case, un pianterreno a 5 gradi con il pollaio, una cucina nuova mai utilizzata, e fuori un calderone con la legna sempre acceso, per scaldarsi e prepararsi da mangiare”, roba che se Niccolò l’avesse vista in Italia avrebbe parlato di terzo mondo.

Una famiglia meravigliosa – che non gli parla del virus

Poi la mamma di Niccolò, un po’ più prosaica, chiama il figlio per dirgli che ha letto di una epidemia pericolosa in Cina – lui, invece, che era lì non ne sapeva niente. Né gli avevano detto niente i suoi meravigliosi genitori ospitanti che, anzi, lo rassicurano: “Li Jun e Jiang Xian Xian mi rassicurano: siamo in campagna, qui non arriva nulla. È passato più di un mese e loro sono ancora lì, fra l’altro. Io comincio a informarmi, più che i giornali comincia a parlare il governo, WeChat apre una sezione sul coronavirus” dice Niccolò. “E io, pur circondato di affetto” (ma di poche informazioni) “mi ritrovo solo davanti a una decisione da prendere: tornare subito, prima che chiudano tutto. È il 27 gennaio, e voglio prendere quell’aereo non tanto per me, quanto per la mia famiglia”.

L’impeccabile organizzazione cinese

Qui, nonostante l’impeccabile organizzazione cinese, Niccolò incontra panico e confusione: “Il medico del villaggio mi misura la febbre, 37, un comune raffreddore, dice lui. Io forse mi faccio prendere dall’ansia. All’aeroporto otto ore di attesa, mi metto nel punto più lontano: lo scalo è aperto solo per i voli di rimpatrio. Mi fermano davanti allo scanner termico e mi dicono: vieni giù, dobbiamo farti altri controlli. Mi misurano la febbre altre quattro volte, e poi decidono di rimandarmi all’ospedale di Wuhan”. Poi prosegue Niccolò si “vanta” di essere scampato al coronavirus: “Sono stato nel focolaio dei focolai, e non ho preso nulla, semplicemente perché ho adottato delle semplici precauzioni. In ospedale mi hanno fatto Tac, prelievi e tamponi. Ho capito che dicevano: ‘Non può tornare in Italia’” (nessuno che gli parlasse in inglese nell’avvenieristica Cina). “E così sono riandato fuori, affidato al volontario Tian, che veste sempre con tuta e una specie di scafandro ma davanti a un hamburger se la toglie per non spaventarmi” – alla faccia delle precauzioni!

Nemmeno una parola per l’Italia

“Una settimana dopo, il volo attrezzato mi riporta in Italia. Due settimane di quarantena, anche in compagnia di un libro: la storia di un paraplegico che attraversa l’Atlantico in catamarano, il senso è quello di non arrendersi mai”: nemmeno una parola per l’organizzazione italiana, per i medici dello Spallanzani e per gli sforzi profusi per riportarlo sano e salvo dalla sua famiglia. Grazie Niccolò, torna in Cina adesso, tanto il virus è arrivato anche qui – è proprio vero che non guarda in faccia nessuno, quindi vedi se con delle semplici precauzioni ne esci “vittorioso” una seconda volta.

Ilaria Paoletti

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