Esule centenaria risponde ai giustificazionisti: “Noi non avevamo nessuna colpa, eravamo solo italiani”

Cornelia Jocklick ha cento anni. Gli occhi azzurri, dello stesso colore dell’Adriatico, sono velati da una tristezza profonda. La sua storia inizia là dove si perdono i ricordi, al confine orientale.

Nata a Pola il 2 febbraio del 1920 è ancora lucidissima, ma il passato è troppo doloroso da ripercorrere. Soprattutto i giorni dell’arresto di suo marito, il professor Giulio Smareglia. E così spetta al figlio Claudio, che all’epoca aveva appena tre anni, guidarla nel racconto. “Mio papà – racconta – insegnava italiano a quei pochi rimasti a Pola”. È il 1947 e la pace negoziata dalle potenze vincitrici della seconda guerra mondiale ha già scritto il destino dell’Istria.

Inizia l’esodo dei connazionali che non vogliono rinunciare alla propria identità, quelli che Indro Montanelli chiamò “italiani due volte”. Ma sul piroscafo che punta verso Trieste non c’è la famiglia Smareglia “Papà – prosegue Claudio – era un idealista, pensava che rimanendo lì non tutto sarebbe stato perduto”. Il professore non è un comunista e neppure un fascista. È un divergente, un non allineato, un sognatore. Posizioni che nel 1943, quando i tedeschi riprendono il controllo della città, gli costeranno l’internamento nel campo di concentramento di Buchenwald. Dopo due anni, il rocambolesco ritorno a casa con la fine della guerra. “Ci ha messo due mesi e mezzo – annota commossa Cornelia, che negli anni di prigionia del marito era guardata a vista dalle Schutzstaffel – a rientrare a Pola”. La città di allora era amministrata dagli Alleati. “Si viveva abbastanza bene sotto gli anglo-americani – racconta Claudio – anche se dall’entroterra arrivavano i racconti terribili dei disperati in fuga dai territori occupati dai titini”. I polesani ancora sperano di non venire sacrificati dal compromesso. Già a maggio del 1946 però inizia a circolare la voce che al tavolo della pace l’Istria verrà assegnata alla Jugoslavia, divenuta triste realtà l’anno successivo.

Giulio non si arrende e continua a insegnare. Finché, un giorno, non pagherà la sua ostinazione a caro prezzo. Sta facendo lezione quando il commissario politico irrompe in classe e gli domanda: “Professore, cosa sta insegnando?”. “Insegno Dante”, risponde ingenuamente il professore. “Qui non si parla di Dante, qui si parla del Maresciallo Tito”, replica il graduato rovesciando la cattedra a terra. “A quel punto – racconta Cornelia – ha capito che non saremmo più potuti restare e ha cercato di venire via”. La famiglia, con Claudio in fasce, è pronta a partire. Sono sull’uscio di casa quando vengono fermati dall’Ozna. “Hanno arrestato Giulio e mi hanno strappato il piccolo dalle braccia dicendomi che sarei potuta partire solo io”, racconta la centenaria. “Mi sono gettata a terra, ho pianto, mi sono dimenata e alla fine mi hanno restituito Claudio, da lì è cominciato il nostro calvario”. Giulio, accusato di essere nemico del popolo e spia dell’Occidente, viene internato nel carcere di Fiume e la famiglia perde tutto. I ricordi di Cornelia, l’esule centenaria: “Solo io so quanto ho sofferto”Pubblica sul tuo sito

“Siamo diventati invisibili, di quel periodo ricordo sono una cosa: la fame”, spiega Claudio, che è sopravvissuto grazie al latte della madre fino all’età di tre anni. “Io andavo nei campi a rubare patate e carote per fare qualcosa da mangiare”, aggiunge Cornelia. I due continuano a vivere nella loro casa che, nel frattempo, era stata assegnata a una famiglia di slavi. “Hanno avuto pietà di noi – racconta l’anziana – e ci hanno lasciato una piccola stanza al pianterreno”. Sono gli anni bui, gli anni della miseria e del terrore, quelli che Cornelia fatica a ricordare. “Mentre ero in viaggio per andare a trovare Giulio – racconta la centenaria – sono svenuta a causa di un’infezione, ma all’ospedale di Fiume mi hanno scaraventata giù dalla barella quando hanno scoperto che ero italiana”. E così, febbricitante, si è trascinata fino a casa. “Solo io so quanto ho sofferto, ho sofferto come un cane”, ci dice con la voce rotta dal dolore. Lo strazio dura per due anni, finché grazie all’intercessione di compagno di prigionia a Buchenwald, divenuto deputato, Giulio non viene rilasciato. “Ci hanno presi così come eravamo, mio papà con la tuta da carcerato e mia mamma in sottoveste, e scaricati al confine”, racconta Claudio. Era il 1950.

“Non è stato facile ricominciare, ci trattavano come degli appestati, ma alla fine ce l’abbiamo fatta”, spiega Claudio. Cornelia invece rimane in silenzio, ha lo sguardo perso nel vuoto. “Per tanti anni – dice agitando le mani, come per scacciare gli spettri – ho cercato di dimenticare, ogni volta che riaffioravano i ricordi mi mettevo a suonare il piano o cantavo”. Ma i rumori del passato continuano ad echeggiare, amplificati dai rigurgiti giustificazionisti che ogni anno fanno da cornice al Giorno del Ricordo. “Ogni volta che sentiamo degli italiani come noi che dicono che quello che è successo ce lo siamo meritato o, ancora peggio, che ci avrebbero dovuto fare ancora più male si riaprono le ferite”, dice Claudio. A distanza di tanti anni, c’è ancora qualcuno che prova a trovare degli alibi ai torturatori. É a loro che mamma e figlio vorrebbero chiedere il perché di tanto accanimento: “Noi non abbiamo nessuna colpa, il fascismo non è nato in Istria, noi eravamo solo italiani. Ed essere italiani non è una colpa, è un vanto”.

il giornale.it

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