Il ruolo dell’Italia tra jihadismo internazionale e islamismo radicale

L’Italia è da tempo diventata un centro logistico e di supporto al jihadismo. Ma non c’è soltanto questo. Vi è infatti tutto quel filone legato all’islamismo politico, di stampo radicale e ideologicamente vicino alla Fratellanza Musulmana, che risulta più attento nel muoversi con l’obiettivo di acquisire legittimità sia sul piano mediatico che politico; un fenomeno non violento, ma che non può non destare preoccupazione per le sue espressioni radicali e i relativi collegamenti con Paesi che hanno sostenuto e che sostengono gruppi armati che agiscono in nome del jihad. Bisogna però affrontare il discorso con la dovuta attenzione, evitando di sovrapporre contesti che magari si muovono su terreno comune ma che si differenziano per natura, dinamiche e modus operandi. Accomunare in maniera inappropriata le diverse espressioni di un fenomeno complesso e poliedrico come quello islamista rischia infatti non solo di creare confusione e dunque di non permetterne un’adeguata comprensione, ma anche di complicare l’implementazione delle necessarie misure per contrastarne l’operato.

Un comun denominatore ideologico

Prima di passare al fenomeno jihadista in contesto italiano è bene aprire una breve parentesi sulla differenza tra islamismo politico (radicale) e jihadismo. Troppo spesso la questione viene infatti affrontata in modo riduttivo, identificando i Fratelli Musulmani (attualmente la massima espressione dell’islamismo politico) come filone “moderato” che negli anni ’80 in Egitto ha deciso di dissociarsi dalla lotta armata (jihad) per cercare di inserirsi all’interno di meccanismi istituzionali dopo aver brillantemente infiltrato la società egiziana su più livelli.

Tale lettura semplificata porta infatti a pensare che i Fratelli Musulmani abbiano improvvisamente accettato i meccanismi istituzionali (e in alcuni casi democratici) rinunciando dunque al “jihad” (inteso come lotta armata) come mezzo per raggiungere il potere. Da qui al cercare di sdoganare il movimento indicandolo come “forza islamica democratica” è un attimo ed è anche un grosso errore di valutazione, come hanno del resto dimostrato gli esecutivi “democraticamente eletti” in Egitto con Mohamed Morsi e in Turchia con Recep Tayyip Erdogan, che di democratico hanno manifestato ben poco a parte le modalità con le quali sono andati al potere (ed anche su questo si potrebbe aprire una lunga discussione). Siccome per comprendere la reale natura di un partito, gruppo o organizzazione non ci si può fondare soltanto su ciò che dice ma piuttosto sulla comparazione tra il dichiarato e quanto messo poi effettivamente in atto, è sempre bene analizzare i fatti.

In aggiunta, è bene tener presente come la scelta o meno di abbracciare la lotta armata riguardi esclusivamente il modus operandi dell’organizzazione in questione. I principi ideologici e gli obiettivi a lungo termine non sono però di secondaria importanza. Il cosiddetto islamismo politico è pronto a rinunciare alle idee di Hassan al-Banna? Sayyid Qutb? Come pensa di porsi questo filone ideologico nei confronti della separazione tra religione-politica e società? E per quanto riguarda lo Stato fondato sulla Sharia come unica fonte legittima? Come intendono porsi gli islamisti nei confronti degli omosessuali? Nei confronti dei musulmani che decidono di abbandonare la propria fede? Che dire poi di quegli spazi socialmente separati e sulla separazione tra uomini e donne, ancora messi in atto da gruppi islamici italiani che si definiscono “moderati”? Queste sono alcune delle tematiche su cui far leva, perchè non è sufficiente dire di aver abbandonato la lotta armata se poi i principi ideologici che si portano avanti sono agli antipodi della democrazia e della libertà di pensiero e di attuazione.

E’ bene ricordare che fu proprio la guida spirituale dei Fratelli Musulmani, Yusuf Qaradawi (lo stesso che ha invocato il jihad contro Assad in Siria e la resistenza contro al-Sisi in Egitto) nel suo documento “Towards a Worldwide Strategy for Islamic Policy” a parlare di “flessibilità” intesa come strategia che incoraggia gli islamisti ad adottare temporaneamente valori occidentali, senza deviare dai principi basi dell’Islam. L’obbiettivo è chiaro: infiltrare i vari sistemi politici, sfruttandone i meccanismi a seconda del contesto di riferimento. Una strategia forse più pericolosa della lotta armata.

Secondo quanto rivelato dal libro “Qatar Papers” l’Italia risulta oggi essere il principale paese europeo dove i Fratelli Musulmani spingono per ottenere spazio. Le attività dei principali due Paesi sponsor della Fratellanza (Turchia e Qatar), anche in relazione alla politica estera italiana in Libia, erano tra l’altro già state esposte qualche giorno fa.  Del resto il Viminale ha recentemente dato il via libera alla sanatoria su Milano per la moschea turca di Mili Gorus, considerata la “lunga mano” di Erdogan in Europa; ennesima mossa azzardata.

Il jihadismo e l’Italia

Se da una parte c’è tutta la questione legata all’islamismo politico radicale, dall’altra c’è quel fenomeno jihadista che in Italia ha mostrato tratti distintivi rispetto agli altri Paesi europei, sia sul numero di foreign fighters partiti per i territori di guerra siriani-iracheni che per la quasi assenza di attentati in territorio italiano (a parte alcuni casi ricollegabili a soggetti che si sarebbero mossi di propria iniziativa, senza il sostegno di un’organizzazione vera e propria alle spalle; aspetto che non esclude però eventuali contatti non-strutturati).

Sulle cifre dei foreign fighters partiti dall’Italia si è tanto parlato, con una cifra totale che si aggira intorno ai 125 di cui meno di una ventina con effettiva cittadinanza italiana, mentre negli altri casi si tratta di extracomunitari residenti o transitanti in territorio nazionale.

C’è però un punto fondamentale che riguarda la tipologia di foreign fighters. Sotto certi aspetti infatti, sembra quasi che vi sia una pseudo-classificazione ufficiosa e non totalmente sdoganata, secondo cui chi si è arruolato nell’Isis è ritenuto a tutti gli effetti foreign fighter jihadista e soggetto pericoloso; chi si è unito ai qaedisti come l’ex Jabhat al-Nusra, oggi Hayyat Tahrir al-Sham è in una zona grigia (magari in base anche alle relative esigenze politiche internazionali) e i cosiddetti “ribelli moderati”, seppur magari ferocemente islamisti, sono invece tollerabili in quanto appunto “moderati”, oppure “siriani che decidono di rientrare nel proprio Paese per combattere perché dopotutto c’è una guerra e comunque Assad ha messo in atto un genocidio”, considerazioni palesemente soggettive che non possono avere alcuna valenza analitica, ovviamente.

Un caso eclatante è quello di Haisam Sakhanh, elettricista residente per lungo tempo nel milanese e condannato all’ergastolo da un tribunale svedese per aver partecipato al massacro di militari siriani disarmati, tutto ripreso in video. Oltre a Sakhanh vi sono poi diversi suoi “confratelli” arruolatisi nei gruppi armati anti-Assad. Sorge lecito a questo punto chiedersi se debbano essere considerati “jihadisti” o “miliziani”. Del resto, come affermato dal direttore dell’International Center fot Counter-Terrorism di Herzliya, Boaz Ganor, il confine tra terrorista e “combattente per la libertà” spesso combacia con differenti visioni e necessità politiche.

Due parole vanno inoltre dedicate anche a coloro che si sono arruolati nelle file di Jabhat al-Nusra/Hayyat Tahrir al-Sham, gruppo apertamente qaedista; per essere chiari, chi si è unito a questo gruppo si è di fatto unito ad al-Qaeda, principale “nemico dell’Occidente” dopo l’11 Settembre 2001. Poi si può fare tutto il vittimismo che si vuole sulle ragioni per cui dei “poveri ragazzi” sono stati attirati nelle grinfie di questo o quel gruppo. Come già precedentemente detto però, sono i fatti che segnano il destino, non le parole.

Italia come centro logistico e di supporto al jihad

L’Italia è fin’ora risultata immune da attentati  di matrice jihadista del calibro di quelli perpetrati in Francia, Germania o Gran Bretagna, questo lo si è più volte fatto notare e ci si è anche chiesti il perchè, arrivando addirittura a ipotizzare accordi segreti in stile “Lodo Moro”.

In realtà è noto alla stampa come vi siano stati alcuni tentativi di colpire in territorio italiano, come nel caso della ben nota cellula kosovara fermata a Venezia prima che potessero mettere in atto il piano. È bene poi ricordare gli arresti avvenuti a Napoli tra aprile e giugno del 2018, dei gambiani Sillah Ousman e Alagie Touray. I due avevano partecipato a un addestramento militare in un campo mobile in Africa dove si addestrano i futuri kamikaze dell’Isis ed erano pronti a compiere attentati in Europa.  Non va dimenticato che l’Italia ha una lunga esperienza nel contrasto al terrorismo (sia rosso che nero) negli anni ’60 e ’70, fattore da non trascurare quando ci si chiede il perchè sull’assenza di attentati.

Bisogna però tenere anche presente che l’Italia, grazie alla sua particolare posizione geografica, svolge un ruolo di primaria importanza per quanto riguarda il transito di jihadisti, sia tramite “rotta africana” che per quella “balcanica”. Sono infatti numerosi i jihadisti che hanno transitato o persino risieduto in Italia, tra cui il ben noto Anis Amri, che ha anche trovato la morte in territorio italiano. Sono risultate poi numerose le cellule di propaganda e reclutamento su tutto il territorio nazionale, da Bari a Belluno, isole incluse. Numerosi sono inoltre risultati i predicatori/reclutatori itineranti attivi in Italia, tra cui il bosniaco Bilal Bosnic, che ha girato in lungo e in largo il nord Italia prima di venire arrestato dalla Sipa. Se dunque l’Italia ha svolto un ruolo di “ponte” per i jihadisti, sciocco sarebbe andare a colpirlo.

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