Fedele a se stesso infedele al sistema Clint, il libertario

Fedele a me stesso si intitola il bel libro che raccoglie un quarantennio di interviste a Clint Eastwood (Minimum Fax, a cura di Robert E. Kapsis e Kathie Coblentz, traduzione di Alice Casarini, 467 pagine, 20 euro), dal suo esordio come regista (Brivido nella notte) alla sua consacrazione come icona del cinema, quattro Oscar (Gli spietati, Million Dollar Baby), la media di un film all’anno, una garanzia davanti e dietro la macchina da presa, la più totale indipendenza rispetto agli studios, le mode, persino i gusti del pubblico…

Ciò che colpisce nella sua produzione, è la apparente varietà dei temi trattati: si va dalla vita dell’artista (Honkytonk Man, Bird, Cacciatore bianco, cuore nero), all’ethos della virilità (L’uomo nel mirino, Bronco Billy, Corda tesa, Gunny, Gran Torino, The Mule); dal western (Lo straniero senza nome, Il texano dagli occhi di ghiaccio, Il cavaliere pallido, Gli spietati) alla perdita dell’innocenza (Un mondo perfetto, Mistyc River, Changeling, Here-After); dalla natura dell’eroismo (Flag of our Fathers, Lettere da Iwo Jima) alla condizione femminile in un mondo patriarcale imperfetto (Million Dollar Baby, I ponti di Madison County)…

Si tratta di classificazioni parziali e magari arbitrarie, all’interno delle quali si potrebbero ricavare ancora altri e diversi generi, nel senso che i caratteri e le storie raccontate possono essere viste come tante esplorazioni di un’unica condizione umana: l’allenatore di Million Dollar Baby è il fratello gemello del pensionato di Gran Torino, che a sua volta è la faccia consapevole e pulita dell’anziano corriere della droga di The Mule, ma non è questo il punto… Ciò che è più interessante, semmai, è il dover prendere atto che, come racconta appunto il titolo italiano di questo libro (l’originale inglese è l’asettico Interviews, Interviste), siamo di fronte a una filmografia che sempre e comunque mantiene un’impronta talmente personale, nel senso tecnico quanto contenutistico, da essere divenuta inconfondibile. Rimanda cioè a un mondo, meglio, a una visione del mondo «alla Eastwood»: è solo sua, è l’unica per lui possibile. Di essa fa parte, in primis, «l’eterno tema dell’essere diversi», ovvero la sua variante del singolo contro il sistema, le libertà individuali sopra ogni cosa. C’è poi quella che si potrebbe definire «la reticenza dell’eroe»: «In Hereafter è Matt Damon che non vuole aiutare gli altri perché la cosa gli rende la vita impossibile. In Million Dollar Baby, l’ultima cosa di cui il vecchio allenatore ha bisogno è un’atleta giovane, non ha mai voluto che le donne si dedicassero alla boxe. In Gran Torino Kowalski odia tutto e tutti; odia i vicini e la sua stessa famiglia; non gli piace il modo in cui sta cambiando il suo quartiere e il mondo in generale». È una «reticenza» però che ne svela sempre e comunque la «sanità» di fondo e, nonostante le barriere costruite per evitare di soffrire troppo, alla fine si accetta il rischio, si mantiene l’impegno con il proprio io: si sa che sarà una battaglia persa, si sa che però andrà egualmente combattuta.

Ciò fa sì che spesso i suoi personaggi siano banditi che agiscono secondo giustizia e poliziotti che disprezzano la lettera della legge, gli uni e gli altri possessori di un’etica semplice e diretta all’interno di quel «giardino del bene e del male» di cui tutti conosciamo perimetro e divieti. Allo stesso modo, e capovolgendo quella sintetica risposta che il protagonista di Fuga da Alcatraz dà a chi gli chiede come sia stata la sua giovinezza, e cioè «breve», la sua filmografia racconta soprattutto di eroi fedeli a ciò che sono stati prima che la società con le sue leggi imponesse loro la «maturità», e con essa la resa. Per certi versi, i suoi film sono come i romanzi di Ernest Hemingway. È una questione stilistica, innanzitutto, una tecnica a levare, a suggerire, a lasciar intendere, un’economia di mezzi per raggiungere il massimo degli scopi, l’emozione. Non è un caso che le interviste raccolte in Fedele a me stesso abbondino di riferimenti in tal senso.

È però anche una questione di contenuti. Eastwood viene da quel mondo lì, di uomini soli e solitari, di individualisti in lotta o in fuga dalla società, pieni di dubbi, ma con un’unica certezza: si muore. Tutti, nessuno escluso.

Rispetto a Hemingway, Eastwood è tuttavia più tormentato o, se si vuole, meno semplice. Lo è per motivi generazionali: laddove al primo, per età, è ancora concessa l’illusione di un campo d’azione vasto, se non illimitato, dove la tecnica, le masse, la burocrazia, lo Stato, la modernità, insomma, non soffocano la vita, al secondo non restano che scampoli di quotidianità in cui blindarsi per non essere sopraffatti. Lo è anche per motivazioni psicologiche: sciolto dal suo tempo il machismo hemingwayano è patetico, ovvero ridicolo, e Eastwood lo sa perfettamente. Uomini senza donne è un titolo di Ernest, Million Dollar Baby un titolo di Clint, un film di donne e uomini, di padri e di figlie, d’amore e di pietà.

Tutto questo aiuta anche a spiegare il ruolo e il peso di Eastwood nella cinematografia e, per esteso, nella società americana. Pur avendo interpretato, come pochi altri sullo schermo, la figura del ribelle, dell’uomo che non scende a patti, a volte del giustiziere, sempre dell’outlaw, del fuorilegge, del fuoricasta, nella vita Eastwood ha rappresentato l’esatto contrario. Non è mai stato un contestatore, non è mai stato un agitatore, non è mai stato un sovvertitore. Non gli si conoscono eccessi di droga, non gli si conoscono eccessi di alcol, eccentricità, bizzarrie, manie. E tuttavia l’idea di ritenerlo un reazionario o un uomo d’ordine, un difensore del sistema costituito è altrettanto sbagliata. Più semplicemente, Eastwood ha intuito fin da subito e poi via via sempre meglio compreso, che nell’odierna società di massa e di costumi, nell’era del globalismo e della iper-tecnologia applicata, per conservare la propria libertà, la propria indipendenza mentale, occorreva un omaggio formale alle regole del gioco e una disciplina interiore atta a far sì che esse non influissero sulle scelte, sui comportamenti e sulle aspettative individuali. Come ogni anarchico privo di illusioni sulla natura umana, Eastwood sa benissimo che le leggi sono un male necessario. Servono per gli altri, fosse per lui saprebbe e potrebbe farne tranquillamente a meno. Quando decide di infrangerle è perché vengono a ledere la sua sfera più privata: la sua libertà di decidere, la sua dignità di essere umano.

il giornale.it

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