Quel brutto sospetto su Conte: ha venduto Salvini agli 007 Usa

Un gioco da maestro: nel pasticcio delle indagini che i nostri servizi segreti hanno svolto prima contro Trump e poi a favore di Trump, Matteo Renzi concentra il tiro su quanto accaduto questa estate, quando a Palazzo Chigi sedeva Giuseppe Conte.

Renzi chiede a Conte di spiegare pubblicamente i suoi contatti con gli americani, e lo rimprovera per essersi tenuto la delega al controllo dei servizi segreti. In questo modo sposta l’attenzione da quanto accadde all’epoca in cui tutto il pasticcio è iniziato, il capo del governo era lui medesimo e il delegato all’intelligence Marco Minniti; e dimentica che il suo successore e compagno di partito, Paolo Gentiloni, si tenne anche lui stretto il controllo degli 007. Quegli 007 che all’epoca pare abbiano aiutato la Cia a montare un trappolone a Trump per conto dell’amministrazione Obama.

Per capirci qualcosa, bisogna aspettare che Conte vada a riferire in Parlamento davanti al Copasir, la commissione di controllo. Ma Conte non ci va perché il Copasir non ha ancora un presidente. Conte dice in giro di essere pronto a parlare sia di quanto accaduto quest’estate, sia di quanto accadde nel 2016, quando però alla guida dell’Aise c’era il generale Alberto Manenti, e l’attuale capo Luciano Carta era il vice (ma senza la delega al controspionaggio). La vera verità la sanno quindi Renzi, Minniti e Manenti: ma qualche carta potrebbe essere rimasta in circolazione, e il premier potrebbe usarla a sostegno della sua versione.

Conte si mostra tranquillo. Anzi, smentisce: «La ricostruzione riportata da alcuni giornali – hanno fatto sapere fonti di Palazzo Chigi – sull’incontro tra il ministro Barr e i vertici dell’intelligence italiana, secondo cui alla base ci sarebbe la richiesta di informazioni da parte di questi ultimi alle autorità americane sui Servizi italiani, è totalmente priva di fondamento». Conte sa bene che su di lui grava il sospetto di avere utilizzato l’estate scorsa l’appoggio americano per isolare il suo vicepremier dell’epoca, Matteo Salvini, fino a poco prima titolare di un asse preferenziale con Donald Trump. Il quale invece il 27 agosto scende in campo con un tweet-benedizione a Conte, «un uomo molto talentuoso che spero resti primo ministro». Cosa abbia fatto cambiare bruscamente idea a Trump non si sa. Ma in queste ore vengono messi in fila alcuni segnali d’allarme risuonati Oltreoceano già prima del micidiale tweet: una sibillina dichiarazione del 7 agosto di Steve Bannon sulla fine imminente del governo Conte 1, e ancora di più, il 10 luglio, l’audio che scatena l’indagine sui contatti di Salvini in Russia, pubblicato sul sito americano Buzzfeed, ben introdotto nella Washington che conta.

Conte, insomma, utilizza l’appoggio Usa per fare terra bruciata intorno a Salvini: questa è la lettura che anche in ambienti vicini al leader leghista sta prendendo piede. In questa operazione, un ruolo decisivo lo avrebbero garantito i nostri 007, che hanno fornito agli americani l’aiuto che Conte aveva promesso loro, stavolta per indagare a difesa di Trump. Questo scenario (che spiegherebbe perché Salvini a Ferragosto gioca d’anticipo, aprendo lui la crisi prima che la tenaglia gli si stringa del tutto addosso) si appoggia, oltre che sui segnali d’allarme dell’estate scorsa, su un dato di fatto: Conte ha saputo, nei sedici mesi trascorsi a Palazzo Chigi, stabilire rapporti di fiducia con buona parte dei servizi segreti. Quando Renzi gli dà in sostanza del dilettante, rimproverandolo per essersi tenuto la delega all’intelligence, in realtà mostra il suo disappunto per come il premier ha saputo portare dalla sua parte i piani alti delle «barbe finte», quelli che – nell’avvicendarsi fin troppo intenso dei direttori – costituiscono la vera ossatura delle due agenzie. Così si spiega l’attivismo americano di Renzi, le visite in Usa dell’estate scorsa: l’ex segretario del Pd coglie l’asse che si sta creando tra Conte, servizi e Casa Bianca e cerca di riaccreditarsi. Per ora, si dice, senza grande successo. Così adesso Renzi punta il dito contro Conte anche per evitare di dover rendere conto di quanto avvenne sotto la sua amministrazione, quando a Roma intorno all’università Link Campus si muovevano liberamente spie e orchestratori di trame. Tra cui Jospeh Mifsud, ora scomparso, che (come rivela ieri il Foglio) fu l’artefice degli accordi tra Link e università russe, insieme all’ex ministro degli Esteri Franco Frattini.

il giornale.it

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