È morto Vittorio Zucconi, l’uomo che viveva il giornalismo. Repubblica in lutto

Si è spento nella sua casa di Washington a 74 anni dopo una lunga malattia. Cronista, scrittore, è stato corrispondente dagli Stati Uniti per “Repubblica” e direttore del sito e di Radio Capital

Anche quella forza della natura giornalistica che era Vittorio si è fermata. La forza della scrittura, l’impeto del narrare, l’energia della raffigurazione, la potenza della costruzione. E insieme, la felicità ogni volta del capire e del raccontare, una sorta di abbandono responsabile e vigile al richiamo della storia, qualcosa di quasi fisico, materiale, dove la vicenda lo dominava possedendolo: finché il suo giornalismo soggiogava la realtà, la penetrava attraversandola, e intanto ricreava un mondo.

Questa capacità di evocare ogni volta un quadro, un paesaggio, un ambiente in cui far muovere come in una piece teatrale i personaggi con le corrette proporzioni della vita era la sua cifra, la qualità specifica del suo lavoro, che portava il giornalismo un po’ più in là dei suoi confini normali. Viveva per raccontare. E attraverso il racconto, capiva e aiutava a capire, cioè muoveva il meccanismo dell’interpretazione e dell’analisi, che in lui sembrava nascere dai fatti, in un’informazione che era insieme grande cronaca, narrazione e commento.

Viveva il giornalismo, non lo interpretava. E infatti il Vittorio privato, quello dell’amicizia, era uguale al suo ruolo pubblico. A cena, in redazione, nei viaggi, negli incontri ogni vicenda, qualsiasi fatto, tutti gli avvenimenti grandi o piccoli di cui si parlava per lui prendevano automaticamente il format del racconto, come se fossero pronti per essere scritti, o addirittura come se fossero avvenuti per finire nella rete del suo giornalismo. Che li reinterpretava rendendoli simbolici, o almeno emblematici, comunque esemplari.

Una domenica, a Mosca, passeggiavamo soli sulla via Arbat durante un meeting tra Reagan e Gorbaciov, senza lavoro perché allora “Repubblica” non usciva il lunedì, quando vedemmo correre in senso opposto otto uomini in nero con l’auricolare nelle orecchie: nello stupore russo apparve Reagan, stringendo la mano ai passanti, sotto l’occhio della Cnn, senza il codazzo dei cronisti al seguito. Era un’improvvisata, durò un attimo per ragioni di sicurezza, dopo pochi minuti la strada sovietica era tornata quella di sempre. Ma ecco che Vittorio mi stava già raccontando quello che avevamo appena visto. Non potendo scrivere il pezzo, me lo recitava, perfetto.

Geloso nel lavoro, come tutti noi, era generoso nell’affabulazione, empatico, capace di entrare in sintonia con qualunque interlocutore, un bambino, un campione sportivo, un politico, un lettore. Divoratore notturno di qualsiasi cosa si potesse leggere, col suo russo, il francese, l’inglese americano e persino un po’ di giapponese poteva parlare di tutto, e su tutto aveva un’opinione, ma soprattutto un ingresso particolare, con un ricordo personale, una storia tangenziale: e infatti era un animale radiofonico perfetto, come testimoniano gli anni alla direzione di “Radio Capital”. Si prendeva in giro canzonando gli altri. Ma invecchiando confessava l’importanza dell’amicizia, con quegli slanci che nascono a sorpresa dal pudore del lavoro: fino a borbottare una sera al telefono un “ti voglio bene” a qualcuno prima di riattaccare, probabilmente vergognandosi.

Aveva lavorato con direttori come Scalfari, Ronchey, Fattori, Nutrizio e Di Bella. Aveva visto il mondo con gli occhi del mestiere, che obbliga a indagare, decifrare, capire. Bruxelles, giovanissimo, poi New York, Mosca, Parigi, Tokyo, Roma con il caso Moro, di nuovo e definitivamente Washington, l’America dei suoi figli Guido e Chiara e dei suoi nipoti. Ma l’ancoraggio del suo mondo privato era Alisa, a cui leggeva i pezzi in cucina prima di spedirli, la compagna che lo accompagnava nei viaggi, che gli faceva da sparring partner, quando masticava un avvenimento elaborandolo, prima di cominciare a scrivere.

Scrivere era l’inizio e la fine di tutto, l’unica cosa che contava. Non diceva mai no al giornale, aspettava la chiamata con la richiesta di un articolo, lo cominciava subito, poi attendeva la telefonata di controllo, di ringraziamento, di complimenti. Aveva promesso alla famiglia che non avrebbe risposto al giornale solo il giorno in cui suo figlio giurava come ufficiale, e infatti non lo fece per due ore, poi cedette. Era morto Frank Sinatra e scrisse un articolo bellissimo col computer sulle ginocchia tornando a casa in auto, mentre Alisa guidava.

Quella scrittura fluida e impetuosa come una necessità, come un trance, come qualcosa di naturale, che sembrava sgorgare da sola, e trovare automaticamente il suo corso. La prima volta in cui abbiamo lavorato insieme, durante un vertice internazionale a Washington, a un certo punto ho fatto il giro del tavolo, gli sono passato alle spalle, per guardare il suo foglio dentro la macchina per scrivere. Quando ho visto le correzioni, quelle “X” grandi una dietro l’altra con cui tutti cancellavamo le imperfezioni, mi sono rassicurato: anche Vittorio fatica, persino quella scrittura ardente ha bisogno di qualche correzione, anche lui è umano.

Restano nei racconti di redazione le leggende zucconiane, come capita con tutti i grandi del giornalismo. Quando a Cuba con il Papa non rispondeva alle chiamate del giornale (che non sapeva se era arrivato) e infine giunse il pezzo prima della telefonata. Quando prese una stanza sotto la camera della moglie di un condannato alla sedia elettrica e fece un racconto della sua angoscia coi rumori e i movimenti dell’ultima notte, un racconto che mosse il Papa a intervenire con una lettera. Quando ripercorse con una donna a Hiroshima il suo cammino per andare all’appuntamento inconsapevole con l’atomica, poi deviato dal caso mentre l’Enola Gay stava arrivando. Quando entrò nella Cappella Sistina immediatamente prima dello Spirito Santo, pochi attimi prima che le porte si chiudessero sul Conclave e venisse proclamato l'”extra omnes”.

Lui negherebbe, correggerebbe, sorriderebbe, come quando gli dicevamo che era il più bravo di tutti. Poi con la solita fame di giornale e con la malinconia della lontananza domanderebbe come sempre: cosa si dice in redazione? Oggi una cosa sola, Vittorio: che anche noi ti vogliamo bene, e il giornale piange senza di te.

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