651mila euro di pensione? Ricorso vinto, altro che taglio: Inps condannata a pagare a vita il parassita

Era il direttore dell’ufficio legale del comune di Perugia che non si è opposto alle pretese avanzate da egli stesso. «Non trattai io la pratica: appena fatto il ricorso mi astenni…». E La Corte dei Conti: l’Inps non può tagliargli il vitalizio
Chi ha dato ha dato, chi ha avuto ha avuto: l’ex avvocato comunale perugino Mario Cartasegna deve tornare a ricevere, dice la Corte dei Conti, 651 mila euro di pensione l’anno. Allegria. Secondo i giudici contabili, infatti, l’Inps che gli aveva tagliato il vitalizio cosmico non poteva farlo. Tempi scaduti. Prescrizione non valida, al contrario, per moltissimi altri. Come l’ottantenne cui due anni fa fu chiesto, 24 anni dopo l’uscita, di restituire 87 euro al mese fino al 2039. E questo è il punto: l’assurdità di un trattamento così diverso fra i «diritti acquisiti» di un pensionato d’oro dell’Inpdap, andato in quiescenza dieci anni fa, e quelli «un po’ meno acquisiti» di altri anziani. Vedi l’Emilio Casali, di Rimini, che in tempi recenti si è visto arrivare l’intimazione (ah, i computer…) a restituire la somma «indebitamente percepita» di 0,01 euro. Un centesimo. Con la specifica: se non fosse stato in grado di pagare avrebbe potuto «concordare la rateizzazione del dovuto». In chicchi di miglio, probabilmente. Ma partiamo dall’inizio. Cioè da quando l’avvocato Cartasegna riuscì a farsi riconoscere dal Comune di Perugia, che lo aveva assunto come legale con tutte le sicurezze blindate in un dipendente pubblico, un bonus supplementare allo stipendio per ogni causa vinta.
Un «premio» riconosciuto all’epoca anche da altri enti
Un «premio» riconosciuto all’epoca anche da altri enti ad altri professionisti. Come nel caso del Comune di Roma. E seguito da un secondo «benefit» spropositato: il diritto a calcolare ai fini della pensione anche quelle percentuali sulle cause vinte. Tempi di vacche grasse e di «eccessi di generosità». Di cui oggi lo Stato porta ancora pesanti ammaccature nei bilanci. «E io no?», chiese l’avvocato perugino. No, rispose il ministero del Tesoro: «a prescindere dalla considerazione che l’importo di tali quote non è fisso e continuativo», che la legge 299/1980 «fa espresso divieto agli enti di corrispondere emolumenti non previsti dal contratto di categoria» e che l’articolo 10 «dispone che la certificazione delle voci retributive ai fini di pensione sono quelli contrattuali “con esclusione di qualsiasi altro emolumento a qualunque titolo corrisposto”». Eppure, di ricorso in ricorso contro il parere del Tesoro «stucchevole e quasi irritante», alla fine l’avvocato la spunta. E senza che l’ufficio legale del Comune di Perugia diretto da Cartasegna faccia opposizione alle pretese del dipendente Cartasegna («Non trattai io la pratica: appena fatto il ricorso mi astenni…». E chi la trattò? «Non so, eravamo 1.600 dipendenti…») la navicella arriva nel dorato porto. Il Tar perugino sentenzia: «Nella quota degli onorari percepiti si rinviene la presenza di tutti gli indici che la legge prevede per la loro utilità a pensione». È il dicembre ’97. L’Avvocatura dello Stato, tre mesi dopo, chiede all’Inpdap, l’istituto previdenziale dei dipendenti pubblici (che nel 2012 passerà all’Inps tirandosi dietro un buco di 23,7 miliardi) se voglia fare appello. Silenzio. Due mesi e insiste: l’appello? Silenzio. Denuncerà l’Istituto presieduto da Tito Boeri: «Agli atti non risulta che la sentenza sia stata mai appellata». Fatto sta che a ottobre 2008, quando va in pensione, Cartasegna ha accumulato nell’ultimo anno (quello buono all’Inpdap per calcolare il vitalizio) i «bonus» di tante ma tante di quelle cause da moltiplicare i suoi guadagni medi da duecentomila a oltre un milione di euro.
Il caso, però, scoppia grazie al Corriere
La cifra più alta mai presa al mondo da un dipendente comunale. Al punto che tre anni dopo, nel 2013, salirà appunto con adeguamenti vari ai 651 mila euro che dicevamo. Il caso, però, scoppia grazie al Corriere solo nel 2015. Il tempo di fare tutti i controlli col ricalcolo di contributi versati e vitalizi già pagati e nell’aprile 2016 l’Inps chiede al super-pensionato di restituire 3.700.000 euro ricevuti in più dal 2008 e gli riduce la pensione a 11.154 lordi, 5.300 netti al mese. Lui fa ricorso. Ma la Corte dei Conti umbra, nell’ottobre 2017, gli dà torto, dichiara «la legittimità del recupero effettuato dall’Inps» e censura «l’indebita, abnorme valorizzazione degli onorari ai fini del calcolo della pensione che in tal modo aveva raggiunto livelli elevatissimi» e la «macroscopica illegittimità che si stava consumando con l’indebita percezione di tali ingenti somme».
Il ricalcolo della pensione,
Nuovo ricorso. Ed ecco che la Sezione prima di Appello della Corte dei Conti, giorni fa, rovescia tutto. Dando ragione al cocciutissimo avvocato. Il ricalcolo della pensione, secondo i magistrati contabili, non poteva essere fatto trattandosi d’un «trattamento pensionistico definitivo». Per capirci: stando all’«art. 204 del d.P.R. n.1092 del 1973» l’Inps avrebbe dovuto ricorrere contro quella «pensione deluxe» al massimo entro tre anni. Cioè quando non poteva toccar palla perché la faccenda era in mano all’Inpdap. Scaduto il triennio, ciao. Ma come: e tutti i pensionati ai quali è stato chiesto a distanza di anni di restituire somme varie? La «prescrizione», per loro, non c’è. A farla corta: la questione della disparità di trattamento tra dipendenti pubblici e privati, per i quali non c’è una scadenza oltre la quale l’Inps debba bloccare ogni rivalsa in caso di errore di qualsiasi natura, è stata «oggetto di esame da parte della Corte Costituzionale per due volte (sent. n. 208/2014 e n. 148/2017)». Ma la Consulta «ha concluso in entrambi i giudizi per la legittimità della norma, rilevando che la diversità di regime tra pensioni pubbliche e private è stata una scelta del legislatore al quale la Corte Costituzionale non può sostituirsi».
La Corte Costituzionale
Ma come: non è proprio la Corte Costituzionale a esser chiamata a dire se una disparità è costituzionale o no? Non è stata criticata a volte, da parti politiche diverse, per aver svuotato qua e là scelte fatte dal Parlamento? Anche in tema di pensioni come quando definì incostituzionale il «contributo di solidarietà» dei pensionati con un certo reddito spingendo Elsa Fornero a denunciare in una lettera al Corriere «l’ingiustizia di questo regalo a favore di chi è già più ricco»? E i più maliziosi non hanno forse buttato lì il sospetto di un interesse degli stessi giudici a difendere alcuni «diritti acquisiti» con più decisione di altri? Certo, la Corte nella sentenza del 2017, rilevata l’esigenza di armonizzare i due regimi, si è mossa. Formulando «l’auspicio che il legislatore proceda, con adeguata tempestività, a adottare un intervento inteso a superare le riscontrate divergenze tra le discipline previste, rispettivamente, per il settore pubblico, dall’art. 26 della legge n. 315 del 1967 e dagli artt. 204 e 205 del d.P.R. n. 1092 del 1973, e, per il settore privato, dall’art. 52, comma 1, della legge n. 88 del 1989». Ma tutto, per ora, si è esaurito lì… E coi tempi che corrono la sentenza sull’avvocato perugino rischia di essere un cerino nel pagliaio…

 

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