Il vero killer dei processi è la pigrizia delle toghe

Altro che avvocati «azzeccagarbugli», come dice il ministro Alfonso Bonafede; o «tecniche processuali ostruzionistiche e dilatorie», come afferma ieri al Fatto il pm Nino Di Matteo.

Le cronache di questi anni – e ancora più di esse, le statistiche ufficiali – raccontano come ad affondare i processi negli abissi della prescrizione siano i buchi neri del sistema giudiziario, dove le eterne lagnanze sulla carenza di personale coprono pigrizie ataviche, sciatterie e casi – sporadici ma eclatanti – di irresponsabilità. In ogni caso, i dati dimostrano che a uccidere i processi sono nella maggioranza dei casi non gli avvocati ma i magistrati.

Il 62 per cento dei processi (fonte: ministero della Giustizia) si prescrive durante le indagini preliminari, quando i difensori contano zero. A Milano è leggendario il caso di un sostituto procuratore il cui carico di arretrati era tale che per smaltirlo dovette venire creata una squadretta di marescialli che scaraventò i fascicoli nella prescrizione, come se fosse una specie di raccolta differenziata. Ma le disfunzioni avvengono in ogni fase dei processi, e tutte insieme contribuiscono ad avviare le accuse verso la prescrizione.

Ci sono giudici che si dimenticano di depositare le sentenze: a Milano il processo per l’amianto alla Pirelli si è concluso in primo grado il 19 dicembre 2016, tra un po’ saranno passati due anni, e intanto la prescrizione continua a correre. In altri casi sono le Corti d’appello a non fissare i processi: per questo motivo per due volte di seguito, ed entrambe a Torino, due violentatori sono stati prosciolti per prescrizione, dopo che le loro condanne erano state tenute ferme per anni in attesa del processo di secondo grado. Nel frattempo, una delle vittime si era uccisa. Spettacolare la performance della procura di Taranto nella inchiesta sul traffico di rifiuti intorno alla centrale Enel: l’inchiesta viene aperta nell’aprile del 2005, e per arrivare alla sentenza di primo grado ci vogliono ben nove anni: e a quel punto è già tutto prescritto. Stessa sorte a Milano per il processo per l’inquinamento dell’area Montecity: cinque anni per arrivare alla sentenza di primo grado, e prescrizione per tutti.

Tragedie, scandali, piccole storie: il buco nero inghiotte reati di ogni genere. Gli imputati, tranne poche eccezioni, accettano di buon grado anche se si considerano innocenti: meglio una prescrizione certa che l’alea della sentenza. A Roma un signore che aveva costruito la sua villa abusiva al Circeo si è visto prosciogliere perché per arrivare alla prima la sentenza la procura impiegò quattro anni, e altri cinque servirono per fissare il processo d’appello: la prescrizione salvò anche la villa, che non verrà demolita. A Torino un tizio che rapinava i minimarket se l’è cavata perché tra rapina e sentenza sono passati ventidue anni, di cui undici tra il processo di primo grado e l’appello.

Il disastro coinvolge a macchia di leopardo tutto il Paese, con isole di efficienza ma anche picchi disarmanti di processi inghiottiti nella maglie del sistema. Il ministro della Giustizia Andrea Orlando ordinò una statistica, e si scoprì che la metà delle prescrizioni di tutta Italia avviene in soli quattro distretti giudiziari. Eppure né Orlando né il suo successore hanno pensato di mandare i loro ispettori almeno in questi distretti a chiedere conto ai magistrati del loro operato. Orlando, se non altro, ebbe il buon gusto di non dare la colpa di tutto agli avvocati.

IL GIORNALE.IT

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