Così il partito comunista chiude le porte ai cinesi

Pochi, ma buoni. Il nuovo Grande Timoniere li vuole così. Dopo aver cancellato dalla Costituzione il limite dei due mandati garantendosi la possibilità di restare in sella vita natural durante il 65enne presidente Xi Jinping ora rimodella il principale strumento del proprio potere ovvero il Partito Comunista. Se i suoi predecessori puntavano a ingigantirlo Xi vuole ridimensionarlo per trasformarlo in un organismo perfettamente piegato alle sue direttive e capace di esercitare un controllo capillare su tutti i settori che contano a partire da università e aziende. I numeri spiegano con chiarezza la strategia di Xi. Dal 1985 al 2016 il partito ha raddoppiato la propria consistenza raggiungendo la cifra record di oltre 90 milioni di iscritti. Da quel momento tutto è cambiato.

Le nuove regole di Xi prevedono criteri di selezione molto più rigidi per entrare a farne parte. Non a caso la crescita dello 0,8 per cento registrata nel 2017 è la più contenuta degli ultimi decenni mentre il numero degli iscritti è sceso a 89 milioni 450mila. Ma se il partito resta il principale strumento di potere perché ridimensionarlo? Perché la corruzione – come ripete Xi dal novembre 2012 quando s’insediò alla guida del partito – è il principale nemico interno e «può portare al collasso del Partito e alla caduta dello Stato». Xi Jinping teme, insomma, che i flussi di denaro generati dalle grandi aziende di Stato possano orientare la fedeltà dei quadri. Nella sua visione una quantità eccessiva di quadri poco motivati oltre ad essere vulnerabile a mazzette e bustarelle rappresenta anche una minaccia alla credibilità dell’organizzazione. Proprio per questo Xi guarda ad un partito di dimensioni più contenute, ma formato da ranghi selezionati e ideologicamente strutturati. Selezione e strutturazione che devono partire da quegli studenti destinati a diventare in futuro la spina dorsale e la testa del partito.

Oggi gli studenti sono però la categoria più sottorappresentata con appena un milione e 900mila iscritti. Una cifra quasi irrisoria a fronte di 17 milioni di iscritti registrati come pensionati e ai 26 milioni di tessere sottoscritte da agricoltori, pastori e pescatori. Ma questo anche perché in Cina gli studenti universitari sono «solo» 20 milioni, a fronte di 222 milioni di ultra sessantenni e di 600 milioni di abitanti di quelle zone rurali in cui si concentrano agricoltori, pastori e pescatori, ovvero il vecchio nucleo duro del partito. Seppur sottorappresentata, la categoria degli studenti resta al centro dell’esperimento di potere di Xi Jinping. Nel 1990, all’indomani di Tienanmen, gli studenti venivano identificati come la più grossa incognita visto che tra le loro file s’era innescata la rivolta sedata nel sangue. Non a caso negli anni successivi gli universitari sono appena il 2 per cento dei nuovi iscritti. Il loro numero cresce a dismisura invece tra il 2000 e il 2012 toccando il 40 per cento dei nuovi tesserati. Ma per molti di quei giovani la tessera è soltanto una scorciatoia verso un posto sicuro garantito dalle assunzioni riservate al partito nei pubblici servizi e nelle altre aziende di Stato. Ed infatti un’indagine del 2015 rivela che solo uno su sei si riconosce nel concetto di «servire il popolo», mentre solo uno su quattro è «fortemente interessato» a venir accettato. A quel punto le regole cambiano bruscamente. Mentre i criteri di selezione vengono resi più stringenti in alcune province viene tolta la possibilità di ripetere gli esami obbligatori e vengono aggiunte prove di selezione fisica. E così nel 2017 le richieste di iscrizione precipitano del 10 per cento.

Tutto questo mentre il Partito inasprisce il controllo su istruzione e università in linea con quanto richiesto dal presidente. «L’università ricorda infatti Xi – deve servire a formare costruttori e successori della causa socialista cinese, non semplici spettatori o addirittura oppositori». E così negli ultimi anni le università fanno a gara nell’introdurre corsi aggiuntivi di teoria marxista mentre squadre di ispettori battono le aule degli atenei per verificare il «lavoro ideologico e politico» del personale. I nuovi iscritti selezionati in un sistema universitario riallineato al dogma comunista e alle esigenze del nuovo Timoniere diventano così i grandi controllori di un’economia e di uno Stato guidati dallo Xi pensiero. «Il partito guida ogni cosa da est a ovest, dal nord al sud passando per il centro», ricordava lo scorso ottobre Xi Jinping, spiegando con una vecchia frase di Mao la necessità di essere non solo più presenti dentro scuole ed università, ma anche di utilizzare i nuovi selezionatissimi quadri per imporre un più stretto controllo su aziende ed economia. Non a caso molte compagnie stanno cambiando i loro statuti per far posto a comitati di partito incaricati di valutarne obbiettivi, produzione e standard lavorativi.

Un cambio di rotta che non risparmia le compagnie straniere. Stando a Qi Yu, vice ministro del dipartimento per l’organizzazione del partito, almeno il 70 per cento delle 106mila aziende straniere presenti in Cina è già sottoposto al controllo di comitati di partito. Un dato che preoccupa non poco gli imprenditori stranieri. «Avere una cellula del partito in azienda significa rischiare di vedersi imposte scelte operative e decisioni che rispondono a ragioni politiche anziché economiche», spiegava Jacob Parker, vice presidente del Consiglio per gli affari Usa Cina. La ristretta, ma agguerrita élite comunista messa in campo dal nuovo timoniere Xi Jinping minaccia insomma le illusioni di chi guardava alla Cina come alla nuova frontiera del Capitalismo. E smonta gli abbagli di quei pseudo esperti occidentali che al Forum di Davos del 2017 avevano contrapposto Xi Jinping a Donald Trump salutandolo come il nuovo profeta del liberalismo e della globalizzazione.

 

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