Giuseppe Conte, Renato Farina: da premier ad Arlecchino, torna a fare il professore

Giuseppe Conte non sarà un grande statista, ma nel suo mitico curriculum potrà con serena coscienza attribuirsi il merito di aver innovato Carlo Goldoni e la commedia italiana. Magari non la politica, ma il guardaroba delle maschere, questo non glielo toglie nessuno. Arlecchino servitore di due padroni, a lui non fa un baffo; lui è a quota tre. Riesce con tranquillità serafica e la rapidità di Figaro con il conte d’Almaviva a prendere la comanda di Giggino Di Maio, di Matteo Salvini e soprattutto – si è scoperto da ieri – di Sergio Mattarella. Finora lo si accreditava, come ha scritto Marcello Sorgi sulla Stampa, di essere «un equilibrista» tra i due vicepremier, a sinistra riparato dall’ala dei Cinque Stelle e a destra tutelato dagli artigli della Lega. Ora scopriamo che ce n’è un altro che sta sopra, e che lo tiene legato dall’alto con fili telefonici ma anche da burattinaio: il presidente della Repubblica.

Il fatto è noto. Il governo stava lavorando benissimo: infatti Conte era a Bruxelles a fare la bella figurina alla Nato. Di Maio si stava dando tranquillamente da fare a chiudere l’Ilva, Salvini a chiudere opportunamente i porti. La regola di buona convivenza tra i due è quella di non interferire reciprocamente. Ognuno fa quello che vuole, poi dicono che sono d’accordo, e chiamano a testimonio di queste nozze felici Conte, che fa da rondella molle tra vite e dado.

Dunque giovedì sera, in ottemperanza a questa sintesi geometrica di due volontà contrapposte ma anche convergenti, peggio che ai tempi di Moro, la Diciotti della Guardia Costiera stava sì ancorata nel porto di Trapani, con i 67 riottosi migranti, come voleva il ministro Cinque Stelle Toninelli, in dissenso da Salvini che invece esigeva girasse al largo. Ma nello stesso tempo, pur addossata al molo, non sbarcava nessuno. Si era trasformata letteralmente in galera: quelle navi romane da cui cioè non scende nessuno, e sono tutti prigionieri. Una situazione di stallo però. Con Salvini che invoca le manette per gli autori di violenze e forse di pirateria, e i giudici che – di solito così spicci quando devono decidere da soli – stavolta non ne vogliono sapere. Un guazzabuglio.

Mai vista una roba così complicata, rispetto a cui i grovigli correntizi, democristiani e pentapartitici della Prima Repubblica, sono rebus dell’asilo. Conte nel ginepraio fa quello in cui è specialista. Cioè nulla ma con classe e senza pungersi. C’è ma non esiste, fa il fantasma a Bruxelles e a Roma, magari contemporaneamente, un sosia di se stesso. Si accontenta di essere la prova, per così dire vivente, dell’esistenza non di due ma di un solo governo.

LA TELEFONATA
Tutto insomma filava liscio, nel sereno stallo di questa epoca di cambiamento al massimo delle mutande, finché Sergio Mattarella è intervenuto in proprio e ha schiacciato il bottone del damerino di Palazzo Chigi, il quale – dopo aver informato gli altri due padroni, Giggino e Matteo – ha dato la libera uscita a clandestini ed equipaggi.

Non è noto se il capo dello Stato sia intervenuto da comandante supremo delle Forze armate, e dunque della Marina Militare, o in quanto garante dell’indipendenza della Magistratura oppure come protettore dei migranti. Più semplicemente riteniamo che, come da tabella riservata di cui siamo venuti in possesso, dalle sei della sera di giovedì spettava a lui il turno di badante del povero Contino.

IL QUARTO UOMO
Mattarella alza il telefono mentre mangia la minestra col formaggino prestino, come capita a noi anziani. E gli chiede «informazioni». Conte scatta come una molla, anzi come tre molle. Obbedire a tre contemporaneamente mica è da tutti. Qui siamo ad una abilità da contorsionista da Barnum. Riesce a entrare e uscire in tre valige, con rapidità fulminea, si infila e si sfila, senza neanche sciupare il cravattino.

La cosa più impressionante è che, vista la triplice obbedienza, uno si immaginerebbe una vocina da paggetto, da usignolo cicisbeo: invece gli viene dal petto un potente flusso sonoro da baritono. Potrebbe segnarlo sul curriculum, e magari nella prossima vita concorrere invece che a Palazzo Chigi all’Ariston di Sanremo.

Abbiamo detto «tre padroni», poiché gli abboniamo per decoro il quarto: Rocco Casalino, il suo portavoce, che in un paio di occasioni più che portare la voce lo ha preso e spostato come un sacco di patate, per levarlo dal contesto in realtà cerimonioso e niente affatto pericoloso dei giornalisti, ma non si sa mai, mica che sbagliasse qualche volta la parte, e cominciasse a credere di essere davvero il capo del governo.

MATTEO MOLLA
La nostra morale è questa. Prima Salvini molla questa pantomima dove riesce molto a farsi udire, ma poco a combinare in fatto di leggi e decreti, e meglio è.

Per essere meno sarcastici. Era chiaro sin da principio che Conte non è un punto di sintesi o di mediazione operativa. Può mediare chi ha una forza politica e/o morale almeno pari a quella di coloro di cui dev’essere il fulcro, la pietra angolare. Qui siamo a una colonna portante di cartapesta, che finge di tener su il governo, ma in realtà è finzione scenica, un trompe-l’œil per gonzi. È stato scelto da Di Maio e Bonafede, cioè dai Cinque Stelle, e portato al Quirinale per avere il sigillo di Mattarella. Del quale adesso si scopre essere devotamente servitore. Conte, per il suo e nostro bene, torni a fare il professore. Dicono sia pronto per lui un concorso vincente di ordinario in diritto alla Sapienza di Roma. Lì potrà togliersi il costume di arci-Arlecchino.

 

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